sabato 25 agosto 2012

Autunno, Epilogo.

58esimo piano, Ross Tower, ufficio del CEO.

         Piove, ovviamente. Cos'altro posso aspettarmi per la fine di questa storia di merda? La prima pioggia dopo mesi, un estate rovente come poche ne ricordano le mie ossa stanche. Aria nuova, aria di cambiamento direbbe qualcuno. Per me che porto la morte dentro e ne dispenso intorno, queste parole non hanno significato. Niente cambia mai veramente, nulla si crea e nulla si distrugge. Semplicemente: avvizzisce. Avvizzisco io, secondo dopo secondo, vittima degli eventi e delle scelte sbagliate, della malasorte o di chi per lei. Vittima e carnefice come sempre, da sessantanni che tanto dura la mia vita ormai. Avvizzisce l'Upper Side e questa fottuta città corrotta che non perde giorno per mietere nuovi morti e ingrassare le tasche dei soliti noti. Avvizzite voi, che credete di essere in salvo, protetti dalla vostra casetta tinteggiata di fresco, con la staccionata bianca e l'altalena appesa in giardino. E non basterà questa pioggia a salvarci dalla dannazione che ci portiamo dentro, ognuno a modo suo. Penso questo e molto altro mentre avanzo verso di Lui con il passo fermo e il cuore consumato.

           Gli punto il cannone ancora fumante dritto in fronte, la mano che trema leggermente. Sei sempre stato un duro, vecchio, ora fa quello che devi. Sento una goccia di sudore scivolare dall'attaccatura dei capelli giù, fino alla mascella. Serro i muscoli del collo e digrigno i denti mentre la gocciolina resta lì, in bilico, indecisa se restare impigliata alla barba ancora un po' o rovinare definitivamente a terra. Tutti sanno che prima o poi cadrà: è solo questione di tempo, lo sa anche lei. La chiamano “gravità”. Ma chi può scommettere se cadrà adesso o tra due, tre, cinque secondi?

Allo stesso modo io mi aggrappo al metallo freddo del revolver, come se non esistesse un domani. E di fatto non esiste. Spalle incassate, braccia tese, lo sguardo febbricitante fisso davanti a me. Tutti sanno che devo premere quel grilletto, è solo questione di tempo. Lo so anche io e armo il cane. Cristo, tira fuori le palle, Jamie, non è il primo succhiacazzi a cui fai saltare la testa. È la voce di mio padre, il Grande Vecchio, sempre troppo sbronzo e sempre pronto a spronarmi in un modo tutto suo. A cinghiate.
        - Non è la stessa cosa – sussurro fra me e me – Non può esserlo. -

         Torna la tosse: più forte, senza tregua. Peggiora giorno dopo giorno, come aveva detto il medico: “Impercettibile e inesorabile come una partita a scacchi dopo aver perso la Regina”. Ironico. Penso alla mia Regina e a come l'ho perduta. Penso a che grosso figlio di puttana sono stato, io che avevo giurato di proteggerla. Penso alle promesse infrante, alle parole che forse era meglio non dire. Penso ai suoi occhi verdi. E adesso che farai, ti metterai a piangere? Dio, ti avrei strangolato nella culla se avessi saputo che razza di frocio saresti diventato! No, pa'. Ho già speso le mie ultime lacrime in un seminterrato del West Side. Ora non è più il tempo di piangere, è tempo di piombo.

Me lo ripeto da 24 ore ormai e di piombo ne è stato rovesciato in abbondanza: mancano solo gli ultimi grammi. Sputo un grumo di sangue e tessuto polmonare. Un vecchio se ne va, poco importa. Gli spasmi della tosse ancora mi scuotono il torace ma la pistola non si muove di un millimetro. Non più.

           Il ragazzo in ginocchio davanti è come me. Ha pianto le sue ultime lacrime e le ha piante per una donna. I suoi occhi azzurro ghiaccio sono i miei occhi. La piega amara della sua bocca anticipa le mie rughe. Tiene stretta fra i denti una sigaretta mentre mi guarda dritto in faccia, lanciando la sua sfida. Non implora, non prega, non bestemmia: si limita a guardarmi con un misto di compassione e follia. Ignoro la compassione e mi concentro sulla follia. Sento la rabbia crescere nel petto prendendo per un attimo il posto del male nero nei miei polmoni. Ogni respiro si carica di furore e disgusto per l'uomo che ho di fronte. Lui solleva lentamente una mano, la porta alla bocca, fa un tiro dalla sigaretta e poi la spegne a terra, accanto alle sue ginocchia. Ha una pallottola per gamba, non è più un pericolo ormai: ma non è quello che mi terrorizza. Dio solo sa che ho vissuto troppo a lungo in questo mondo di merda per avere ancora paura della morte. Rispetto, magari, mai paura.

D'altronde questo sembra essere il mio destino: sopravvivere sempre e comunque, mentre le persone care cadono al mio fianco, una dopo l'altra, senza fine. Ma stavolta no, il fottuto destino non l'avrà vinta un'altra volta.
          - È finita, Junior – sussurro mentre le dita sudate mi scivolano sul grilletto. Le parole sono rivolte più a me che a lui, lo sappiamo entrambi. Il ragazzo stringe leggermente gli occhi (i miei occhi) come quando c'è troppo sole. Ma non parla. Ha già detto le sue ultime parole e ognuna di esse è stata una pugnalata che mi avrebbe volentieri inferto, se solo ne avesse avuta la possibilità. È sempre stato bravo a parlare: ricordo i giochi di parole e le rispostacce argute che mi rifilava fin da ragazzino. Per poco non mi viene da sorridere. Poi mi rendo conto di come le giornate serene e spensierate che amo ricordare siano state più uniche che rare, nascoste in un tempo e in un luogo così lontani che quasi fatico a ritrovare.

             Improvvisamente il peso di queste ultime ore mi si rovescia addosso come un macigno. La testa diventa pesante e le gambe incerte: mi rendo conto di essere solo un vecchio come mai prima d'ora. Un rumore sordo mi sale alle orecchie e non sento più niente. Non sento il vento che scuote impetuoso la stanza in cima al grattacielo, attraverso la parete a vetri sfondata a colpi di mitra. Non sento la pioggia fitta picchiare sul pavimento formando una pozza che arriva a lambire l'orlo dei miei pantaloni. Non sento il frusciare dei fogli sparsi attorno alla grossa scrivania in legno e agli scaffali New Age. Non sento le sirene delle volanti e le urla di poliziotti e vigili del fuoco che irromperanno nell'edificio a momenti.

Per un attimo, solo per un attimo, sento qualcosa spezzarsi e cadere dentro di me. La goccia di sudore che perde la presa sulla barba e dal mento scivola giù, lontano. Poi più niente.
Poi nero su nero.