East End, casale
abbandonato, quartier generale della mafia russa
Cerco
di concentrare l’attenzione sulla carta da parati giallo sporco, sulle tendine
in nylon alle finestre, spalancate per illuminare la stanza. Mi focalizzo sui
tavoli, sulla vodka sopra di essi. Sui mobili, sui due televisori, persino sui
computer. Perché non può essere vero. Non posso trovarmi davvero al QUARTIER
GENERALE. Circa 30 paia d’occhi sovietici mi fissano confusi, mentre le mani
schizzano ad impugnare Makarov e AK-47. In men che non si dica mi ritrovo
puntati contro 15 cannoni. Un fottuto esercito. Una cazzo di Delta Force russa
pronta a ridurmi ad un colabrodo. E io che speravo mi avessero trascinato in
qualche scantinato dell’East Side, qualche casupola dimenticata da dio dove
farmi fuori senza problemi. E invece ero destinato a diventare un dannato
trofeo per questa gente, da esibire di fronte a tutta la gang. Le mura e le
porte devono essere insonorizzate, probabilmente per evitare che le urla
provenienti dalla “sala della tortura” in cui ero rinchiuso poco fa disturbino
gli affari gestiti nella sala principale. Altrimenti non si spiegano le facce
un po’ sorprese dei mafiosi qui davanti che di certo non si aspettavano di
veder uscire me, tutto insanguinato, da quella porta.
Il
tempo che le loro non certo brillanti menti si rendano conto di quanto sia accaduto
e leggo nei loro occhi la mia condanna a morte. Alzo la mano sinistra in segno
di resa mentre con la destra poggio delicatamente il revolver a terra. Sono
fottuto. Il cuore mi continua a martellare nelle orecchie e agisco come un
automa, perché so che non c’è più niente da inventarsi con questa gente. Il mio
Jolly quotidiano l’ho già giocato, cinque minuti fa in uno sgabuzzino, con una
pistola puntata alla fronte. Non posso essere così fortunato.
E
invece sì.
Un secondo prima, probabilmente, che il primo dei
gorilla russi prema il grilletto per poi essere seguito a ruota da tutti gli
altri… li sento. Gli spari. Provengono da fuori, dal giardino trasandato che
intravedo dalle finestre. I sovietici si voltano per cercar di capire cosa
succede: se ricordo bene il loro modus operandi, il perimetro è circondato da
almeno il doppio delle guardie. Praticamente impenetrabile. Poi però la vedo:
la buca delle lettere nella porta del casale che si apre, una granata che
scivola lungo il pavimento e rotola fino a fermarsi per inerzia al centro della
stanza.
La
notano anche i russi e in pochi istanti è il panico. Tavoli vengono rovesciati,
alcuni tentano di uscire da finestre o porte, altri si accalcano lungo le
pareti, si buttano a terra. Io non so cosa cazzo stia succedendo ma capisco che
se voglio uscirne vivo questo è il momento. Faccio dietrofront e mi sbatto la
porta alle spalle, mentre una raffica di proiettili si conficca nel legno dell’uscio.
Faccio appena in tempo a lanciarmi a terra e la granata esplode: tappo le
orecchie e apro la bocca per compensare. L’edificio trema, la lampadina
difettosa sopra di me si spegne definitivamente. Posso solo immaginare la
carneficina nella camera che ho appena lasciato: c’era davvero troppa gente in
troppo poco spazio. Gli autori di questo massacro devono essere gente senza
scrupoli… ma in un modo o nell’altro gli devo la vita. Ma non ho tempo di
pensare. Mi rialzo e, muovendomi a tastoni, mi precipito verso l’altra porta
del corridoio, sperando che stavolta sia quella giusta. Ogni passo è un
calvario per il buco del proiettile nel polpaccio. Il braccio della spalla colpita
mi pende inerte al fianco, i punti sono saltati, le ferite riaperte. Sono
disarmato, dolorante, sanguino: non è proprio il momento buono per incontrare
qualcuno. Ma devo uscire fuori di qui, e in fretta. Passo la porta davanti a me
mentre dietro di me e tutto intorno al casale spari ed esplosioni si
susseguono. La testa mi scoppia per la febbre.
Scale.
Scendo. Incespico due o tre volte sui gradini ma la gamba buona regge e non
cado. Odore di umidità e di muffa che trasuda dalle pareti. Il cuore in gola,
non riesco a respirare. In fondo alle scale apro la porta dello scantinato,
stavolta con cautela. E’ un garage di grosse dimensioni, dentro ci saranno
parcheggiate almeno cinque auto nere, Mercedes principalmente. C’è penombra, le
luci sono spente. L’unica illuminazione proviene dal portone esterno semi
aperto. Da fuori provengono raffiche di mitra: un piccolo sorcio sovietico deve
essersi nascosto qui dentro pur sapendo di cacciarsi in una trappola. Ho un
piccolo capogiro e mi appoggio alla parete. Cazzo,
vecchio, non è il momento per accusare gli acciacchi dell’età. Devi venirne
fuori intero. Devi rivedere Aileen.
Mi
guardo intorno e vedo una cassetta degli attrezzi rovesciata. Un cacciavite
bello lungo. Lo prendo e comincio ad aggirarmi circospetto tra le automobili, l’arma
improvvisata impugnata e pronta a colpire, la gamba ferita che strascica dietro
di me e gli occhi allucinati. Non certo un bello spettacolo. Allontanarmi di
qui a piedi in queste condizioni è fuori dal mondo, devo trovare un’altra
soluzione. Butto un’occhiata dentro le Mercedes: chiavi nel cruscotto. Bingo.
Respiro,
tento di placare il battito cardiaco ma questo non vuole saperne. Che giornata
di merda. Rinuncio ai miei inutili esercizi zen e avanzo finché non lo vedo,
rannicchiato dietro un SLK, con un Kalashnikov in mano. Trema visibilmente, sa
di essere fottuto. Non ho pietà e confermo i suoi timori: gli arrivo alle
spalle e gli pianto il cacciavite nel collo con violenza. Il sangue schizza
attorno, il povero stronzo gorgoglia qualcosa poi crolla. Mors tua vita mea, cazzo. Impugno il fucile, so benissimo che deve
essere rimasto meno di mezzo caricatore, ma è tutto ciò che ho. Fuori la
sparatoria prosegue, ma ad intervalli sempre più lunghi. Qualunque sia la fazione
vincitrice sta “pulendo la zona”, occupandosi dei sopravvissuti nemici. Non ho
tempo. Monto in macchina e giro la chiave nel quadro.
Non
so chi sia stato così pazzo da assaltare il QG dei russi, so solo di non
potermi fidare di nessuno. Non ho amici a questo mondo e devo cavarmela da
solo. Non so cosa mi aspetta fuori dal portellone del garage, so che se non do
gas adesso mi ritroverò circondato in pochi istanti da russi, ispanici, negri o
dio solo sa cosa. E allora schiacciamo questo acceleratore. Il motore romba e
io schizzo verso il portone semichiuso, impossibile passarci sotto. Me ne fotto
e tiro dritto. Sfondo il portone e sbandando mi ritrovo nel vialetto esterno. La
luce solare mi acceca per un momento poi vedo le due auto accostate a sbarrare
la strada per la fuga, mentre tre o quattro tizi con i loro mitra cominciano a
sparare. Abbasso la testa per evitare i proiettili e prego che la lamiera di
questa auto sia sufficientemente solida. Gli stronzi fanno fuoco e il
parabrezza mi esplode addosso in mille schegge. Ne sto perdendo di sangue: la
mia vista comincia ad annebbiarsi e non riesco a capire chi è che mi sta
sparando, se sono russi o meno. Ma se c’è una cosa che ho imparato da parecchio
tempo è che se qualcuno ti spara addosso non può essere un amico.
Punto
alle macchine che bloccano la via e accelero. Non è il primo posto di blocco
che forzo e la polizia, di solito, li fa meglio. C’è un punto preciso tra la
coda di una macchina e la punta dell’altra in cui è possibile incunearsi: basta
avere una macchina resistente e la giusta quantità di cavalli sotto il culo. D’altronde,
non ho niente da perdere.
Accelero.