sabato 27 ottobre 2012

Getaway!

East End, casale abbandonato, quartier generale della mafia russa

                  Cerco di concentrare l’attenzione sulla carta da parati giallo sporco, sulle tendine in nylon alle finestre, spalancate per illuminare la stanza. Mi focalizzo sui tavoli, sulla vodka sopra di essi. Sui mobili, sui due televisori, persino sui computer. Perché non può essere vero. Non posso trovarmi davvero al QUARTIER GENERALE. Circa 30 paia d’occhi sovietici mi fissano confusi, mentre le mani schizzano ad impugnare Makarov e AK-47. In men che non si dica mi ritrovo puntati contro 15 cannoni. Un fottuto esercito. Una cazzo di Delta Force russa pronta a ridurmi ad un colabrodo. E io che speravo mi avessero trascinato in qualche scantinato dell’East Side, qualche casupola dimenticata da dio dove farmi fuori senza problemi. E invece ero destinato a diventare un dannato trofeo per questa gente, da esibire di fronte a tutta la gang. Le mura e le porte devono essere insonorizzate, probabilmente per evitare che le urla provenienti dalla “sala della tortura” in cui ero rinchiuso poco fa disturbino gli affari gestiti nella sala principale. Altrimenti non si spiegano le facce un po’ sorprese dei mafiosi qui davanti che di certo non si aspettavano di veder uscire me, tutto insanguinato, da quella porta.
                  Il tempo che le loro non certo brillanti menti si rendano conto di quanto sia accaduto e leggo nei loro occhi la mia condanna a morte. Alzo la mano sinistra in segno di resa mentre con la destra poggio delicatamente il revolver a terra. Sono fottuto. Il cuore mi continua a martellare nelle orecchie e agisco come un automa, perché so che non c’è più niente da inventarsi con questa gente. Il mio Jolly quotidiano l’ho già giocato, cinque minuti fa in uno sgabuzzino, con una pistola puntata alla fronte. Non posso essere così fortunato.
                  E invece sì.
Un secondo prima, probabilmente, che il primo dei gorilla russi prema il grilletto per poi essere seguito a ruota da tutti gli altri… li sento. Gli spari. Provengono da fuori, dal giardino trasandato che intravedo dalle finestre. I sovietici si voltano per cercar di capire cosa succede: se ricordo bene il loro modus operandi, il perimetro è circondato da almeno il doppio delle guardie. Praticamente impenetrabile. Poi però la vedo: la buca delle lettere nella porta del casale che si apre, una granata che scivola lungo il pavimento e rotola fino a fermarsi per inerzia al centro della stanza.
                  La notano anche i russi e in pochi istanti è il panico. Tavoli vengono rovesciati, alcuni tentano di uscire da finestre o porte, altri si accalcano lungo le pareti, si buttano a terra. Io non so cosa cazzo stia succedendo ma capisco che se voglio uscirne vivo questo è il momento. Faccio dietrofront e mi sbatto la porta alle spalle, mentre una raffica di proiettili si conficca nel legno dell’uscio. Faccio appena in tempo a lanciarmi a terra e la granata esplode: tappo le orecchie e apro la bocca per compensare. L’edificio trema, la lampadina difettosa sopra di me si spegne definitivamente. Posso solo immaginare la carneficina nella camera che ho appena lasciato: c’era davvero troppa gente in troppo poco spazio. Gli autori di questo massacro devono essere gente senza scrupoli… ma in un modo o nell’altro gli devo la vita. Ma non ho tempo di pensare. Mi rialzo e, muovendomi a tastoni, mi precipito verso l’altra porta del corridoio, sperando che stavolta sia quella giusta. Ogni passo è un calvario per il buco del proiettile nel polpaccio. Il braccio della spalla colpita mi pende inerte al fianco, i punti sono saltati, le ferite riaperte. Sono disarmato, dolorante, sanguino: non è proprio il momento buono per incontrare qualcuno. Ma devo uscire fuori di qui, e in fretta. Passo la porta davanti a me mentre dietro di me e tutto intorno al casale spari ed esplosioni si susseguono. La testa mi scoppia per la febbre.
                  Scale. Scendo. Incespico due o tre volte sui gradini ma la gamba buona regge e non cado. Odore di umidità e di muffa che trasuda dalle pareti. Il cuore in gola, non riesco a respirare. In fondo alle scale apro la porta dello scantinato, stavolta con cautela. E’ un garage di grosse dimensioni, dentro ci saranno parcheggiate almeno cinque auto nere, Mercedes principalmente. C’è penombra, le luci sono spente. L’unica illuminazione proviene dal portone esterno semi aperto. Da fuori provengono raffiche di mitra: un piccolo sorcio sovietico deve essersi nascosto qui dentro pur sapendo di cacciarsi in una trappola. Ho un piccolo capogiro e mi appoggio alla parete. Cazzo, vecchio, non è il momento per accusare gli acciacchi dell’età. Devi venirne fuori intero. Devi rivedere Aileen.
                  Mi guardo intorno e vedo una cassetta degli attrezzi rovesciata. Un cacciavite bello lungo. Lo prendo e comincio ad aggirarmi circospetto tra le automobili, l’arma improvvisata impugnata e pronta a colpire, la gamba ferita che strascica dietro di me e gli occhi allucinati. Non certo un bello spettacolo. Allontanarmi di qui a piedi in queste condizioni è fuori dal mondo, devo trovare un’altra soluzione. Butto un’occhiata dentro le Mercedes: chiavi nel cruscotto. Bingo.
                  Respiro, tento di placare il battito cardiaco ma questo non vuole saperne. Che giornata di merda. Rinuncio ai miei inutili esercizi zen e avanzo finché non lo vedo, rannicchiato dietro un SLK, con un Kalashnikov in mano. Trema visibilmente, sa di essere fottuto. Non ho pietà e confermo i suoi timori: gli arrivo alle spalle e gli pianto il cacciavite nel collo con violenza. Il sangue schizza attorno, il povero stronzo gorgoglia qualcosa poi crolla. Mors tua vita mea, cazzo. Impugno il fucile, so benissimo che deve essere rimasto meno di mezzo caricatore, ma è tutto ciò che ho. Fuori la sparatoria prosegue, ma ad intervalli sempre più lunghi. Qualunque sia la fazione vincitrice sta “pulendo la zona”, occupandosi dei sopravvissuti nemici. Non ho tempo. Monto in macchina e giro la chiave nel quadro.
                  Non so chi sia stato così pazzo da assaltare il QG dei russi, so solo di non potermi fidare di nessuno. Non ho amici a questo mondo e devo cavarmela da solo. Non so cosa mi aspetta fuori dal portellone del garage, so che se non do gas adesso mi ritroverò circondato in pochi istanti da russi, ispanici, negri o dio solo sa cosa. E allora schiacciamo questo acceleratore. Il motore romba e io schizzo verso il portone semichiuso, impossibile passarci sotto. Me ne fotto e tiro dritto. Sfondo il portone e sbandando mi ritrovo nel vialetto esterno. La luce solare mi acceca per un momento poi vedo le due auto accostate a sbarrare la strada per la fuga, mentre tre o quattro tizi con i loro mitra cominciano a sparare. Abbasso la testa per evitare i proiettili e prego che la lamiera di questa auto sia sufficientemente solida. Gli stronzi fanno fuoco e il parabrezza mi esplode addosso in mille schegge. Ne sto perdendo di sangue: la mia vista comincia ad annebbiarsi e non riesco a capire chi è che mi sta sparando, se sono russi o meno. Ma se c’è una cosa che ho imparato da parecchio tempo è che se qualcuno ti spara addosso non può essere un amico.
                  Punto alle macchine che bloccano la via e accelero. Non è il primo posto di blocco che forzo e la polizia, di solito, li fa meglio. C’è un punto preciso tra la coda di una macchina e la punta dell’altra in cui è possibile incunearsi: basta avere una macchina resistente e la giusta quantità di cavalli sotto il culo. D’altronde, non ho niente da perdere.
                  Accelero.

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