sabato 29 settembre 2012

Cobalto


East Side, seminterrato sulla Columbia Street 

        - Harry James Scott. Harry James Scott JUNIOR. Ecco tutto quello che mi ha lasciato mio padre. Un NOME. Il suo fottutissimo nome. E cosa dovrei farmene del suo nome, della sua fama da TRAFFICANTE di merda? -
Parlo da solo e fisso lo specchio del cesso davanti a me. Mi CARICO.
        - Ma adesso non sono più “Junior” per NESSUNO. Adesso, fanculo, sono “quello del COBALTO”. La miglior merda che puoi trovare per strada al giorno d'oggi. Pulita, comoda, pochi effetti collaterali, SBALLO assicurato. La richiesta aumenta ogni giorno, e ogni giorno abilmente danzo sul gioco della domanda e dell'offerta affamando la CITTÀ... senza mai lasciarla veramente a secco. La dipendenza. Grande invenzione - 
        Mi sono appena iniettato sotto pelle una DOSE. Una dose speciale, “corretta”, potrei dire. Buddy l'ha preparata appositamente per me, è diversa dalla roba che mandiamo in giro. Al momento sono l'unico che ne fa uso in tutto il fottuto globo. Sintetizzarla è un CASINO di cui ho sempre capito poco: strumentazione da migliaia di dollari, lavoro a bassissime temperature, processi di raffinazione complicatissimi, gran spreco di materie prime. Il risultato però è ECCEZIONALE. Gli effetti possono sembrare gli stessi del Cobalto ma portati all'ennesima potenza: basti pensare che questa dose speciale te la inietti direttamente nel CUORE o giù di lì. Il Cobalto, a confronto, non è altro che cocaina particolarmente pura.
         Mi sciacquo la faccia. Pochi secondi e arriva la botta iniziale, degna della migliore ERO. Più viscerale del più intenso ORGASMO della tua vita. Mi aggrappo ai bordi del lavandino mentre sento tutti i miei muscoli che fremono, come percorsi da una SCOSSA. Le gambe si tendono allo spasmo, i nervi delle braccia salgono in rilievo, mi si gonfiano le vene del collo. Sto da DIO.
        Ho del lavoro da fare, stanotte. Un incontro “diplomatico”, hanno detto. I tre boss delle maggiori famiglie dell'East Side manderanno i loro ambasciatori del cazzo a contrattare una SOLUZIONE. Perché non posso continuare così. Non posso prendermi tutto il quartiere. Ci sono regole, territori, mazzette da elargire.
         FANCULO. Io non tratto con i servi. Io non tratto con nessuno. Non mi spezzo e non mi piego: io ottengo ciò che VOGLIO e basta.
         Mi allaccio le All Star azzurre, mi infilo una canottiera rovinata e mi butto addosso il mio giubbotto di pelle. Fa FREDDO, dicono. Il TG ha annunciato un brusco calo delle temperature fin da stanotte. Sarà, ma io sto così fatto che non sento NIENTE, se non un piacevole tepore che promana dalla mia stessa pelle. Sono su di giri, anche se “su di giri” è riduttivo. “Matto come un CAVALLO” rende meglio l'idea. Scendo per i marciapiedi silenziosi di Columbia Street e respiro forte l'aria della notte. Le anfetamine sintetizzate nel Cobalto fanno il loro effetto: è come se il mondo girasse a RALLENTATORE. Le automobili che mi scorrono affianco, i rari passanti che incrocio e che mi osservano tesi e imbarazzati dal mio sguardo allucinato. Sì. E' come se tu fossi abituato a vedere la vita in bianco e nero e improvvisamente inventassero il COLORE.
         Continuo a camminare verso il luogo dell'appuntamento, non è lontano. Il Preacher's Bar è un bar h24, abbastanza distante dai traffici di ogni famiglia, ai confini del quartiere. Si dice che il proprietario sia un REVERENDO dell'Alabama, che si è spretato perchè ha perso la fede nell'uomo. Non fatico a dargli ragione. Imbocco uno stretto vicolo e godo nel sentire che la DROGA rende tutti i miei sensi più attenti, le percezioni sfiorano il paranormale. Sento il SUONO della prima goccia di pioggia che si posa a terra. L'ODORE del toast che sta cucinando la grassa signora al secondo piano dell'edificio davanti a me. Potrei individuare l'esatta TRAIETTORIA di un proiettile basandomi solo sull'inclinazione della pistola. Potrei farlo in tempo reale.
         Quando arrivo davanti al Preacher's li trovo lì, tutti incappottati, che scalpitano per vedermi: il russo, il cinese, l'ispanico. Già, anche russi e cinesi che si ODIANO da generazioni sono fianco a fianco per trattare con me. Dovrei sentirmi onorato ma non me ne fotte NIENTE. Sono stati onesti, non hanno portato scorte o gorilla vari, anche se probabilmente sotto gli impermeabili tengono un arsenale. D'altronde tre contro uno, per giunta scheletrico e tossico, non hanno nulla da temere, no? Leggo la TENSIONE sui loro volti e capisco che ci tengono davvero al buon esito di questa chiacchierata, sperano di risolvere tutto pacificamente. Sperano che nessuno si faccia male. Poveri STRONZI.
         Cominciano a parlare ma mi frantumano le palle dopo tre secondi netti. Li sento blaterare di “rispetto”, di “convivenza civile”, di “parole d'onore”. Rispondo con uno sguardo inebetito e vuoto: ok, ammetto che la mia capacità attentiva sotto l'effetto di sostanze non è il massimo. E poi mi ero incastrato a guardare un GATTO randagio col pelo striato. Avrà attraversato la strada almeno una dozzina di volte. Che cazzo starà facendo? Caccia? Pattuglia il suo territorio?
        - ... e perciò... reciproca convenienza economica... i profitti si moltiplicherebbero... -
Dio, sentiteli. Sembra di stare a parlare con dei MAGNATE dell'alta finanza. Ma noi siamo criminali, cazzo. Qualcuno deve esserselo dimenticato. Per fortuna noto la mia SCARPA e le sue stringhe sciolte. Mi chino per allacciarle. Alzo l'orlo del pantalone e sento il metallo legato alla caviglia e nascosto nel calzino. Il BATTITO del cuore aumenta.
          - Vedete, cari i miei stramaledetti commercialisti, non ho intenzione di farvi perdere tempo – esordisco – Immagino voi siate venuti qui animati dalle migliori intenzioni, per ottenere un accordo, un compromesso. Ma io non cederò, non indietreggerò. Questa cazzo di città sarà MIA, presto o tardi, lo vedrete. Pertanto non fate perdere tempo nemmeno a me e andate a fare il culo. Io non sono venuto qui per ascoltarvi ciarlare. Sono venuto qui per il SANGUE -
Emetto l'ultima sillaba e in un decimo di secondo estraggo il serramanico, lo apro e spicco un SALTO. Mi avvinghio all'enorme russo e gli pianto il coltello nel collo. Sono una pantera. No, sono una fottuta TIGRE. Sono un cazzo di lupo mannaro e la lama è il mio ARTIGLIO, le mie zanne. I due stronzi sopravvissuti non ci stanno capendo un cazzo mentre la giugulare del siberiano spruzza e imbratta di ROSSO me e loro. Tirano fuori i loro mitra e sparano alla cieca. Troppo LENTI. Mi faccio scudo col corpo del russo poi piroetto e sferro un calcio potente al ginocchio del cinese. Sento distintamente il “CRACK” della rotula. Questo si piega urlando e io gli conficco la lama da sotto in su nel mento. L'ispanico si sta cacando sotto e lascia partire un paio di raffiche. Lento lento. Io salto sulla schiena del cinese accasciato e la uso come un trampolino per avventarmi dall'alto sull'ultimo rimasto. Sono un NINJA, un guerriero ombra. Sono un eroe di un film d'azione, di un videogioco. Sono Enzo e sono LARA CROFT. Atterro coi piedi sul petto dell'ispanico sbattendolo a terra, poi calo il coltello quattro, cinque volte su di lui, finché non mi si spezza la lama. Vatti a fidare della roba comprata alle bancarelle.
         Mi alzo da terra e osservo lo SPETTACOLO: si sarà svolto tutto in nemmeno dieci secondi. Attorno a me si è creato un piccolo capannello di gente, gli aficionados del bar, depressi attaccati alla bottiglia fino alle prime luci dell'alba.
        - Cazzo avete da guardare?! -
Spariscono come TOPI. Io mi apro il giubbotto e estraggo dal fodero l'altro coltello. Quello VERO, da caccia, con lama seghettata.
         Vi chiederete: perchè il coltello? SCONTATO. Le pistole sono troppo comode, rendono la morte, l'omicidio, una faccenda semplice, quasi “distante”. Le pistole sono per i codardi. Se non ti sporchi di sangue non puoi dire di aver ucciso veramente qualcuno. E poi, in quest'era di giubbotti antiproiettile e kevlar, non puoi mai esser sicuro di aver steso qualcuno finché non vedi zampillare il suo sangue sul MARCIAPIEDE.
         Faccio appena in tempo a ripararmi dietro una macchina che arrivano i primi proiettili. Ecco la cavalleria, gli amici nascosti dei tre agenti finanziari che mi hanno mandato contro. Probabilmente pronti a farmi fuori nel caso avessi rifiutato la loro “PROPOSTA”. E mi sembra di essere stato chiaro sul rifiuto.
         Saranno mezza dozzina, forse più, armati con fucili automatici probabilmente. Nessun problema. BACIO la lama del coltello e ricomincio la mia danza.

         Quando ho finito mi avranno colpito almeno due o tre volte ma io non sento niente. Una strage. E io non sento niente. Non sento rimorso, non sento DOLORE, non sento di perdere sangue. Sono IMMORTALE. Il Cobalto, nella sua versione “custom”, è anche questo.
         E' per questo che mi rispettano. Per questo tutti vogliono lavorare con me. Sono l'unico leader così PAZZO da continuare a sporcarsi le mani. La vicenda di questa notte risuonerà per mesi nei racconti delle baby-gang, nelle bettole degli ispanici, fra gli ubriaconi slavi e nelle tane dei fottuti mangiariso. Avranno TERRORE, sapranno che non si scherza con me, non si scende a patti con me. Lo scopo è raggiunto, ci penserà Buddy poi, a ricucirmi. Tiro fuori dai jeans una fiala AZZURRA e me la premo nel petto, sotto il pettorale sinistro, fra le costole. Aah. Meglio di qualsiasi adrenalina.
         Mentre mi incammino verso il mio seminterrato sono SERENO, ho la mente sgombra. So che di tutti quelli nel bar, nemmeno uno oserà sollevare il telefono e chiamare la polizia. Quello che succede nell'East Side rimane nell'East Side. Cosa la paghiamo a fare, altrimenti, la POLIZIA? Lo sanno tutti dove abito, ma nessuno mi è mai venuto a cercare. QUESTO è il terrore.
         Metto un piede davanti all'altro e inspiro a pieni polmoni l'odore del SANGUE. Quel sangue che mi macchia il giubbotto, la canottiera, le stesse scarpe. Quel sangue ha un odore così forte che copre qualsiasi altro profumo. Persino il SUO profumo, stampato indelebile nei miei ricordi.
         Poi lo sento. Non dovrei, ho tanto di quel sangue addosso che non è possibile. Ma lo sento. Il profumo dei capelli di mia madre. Mia madre morta. Mia madre ammazzata da quello stronzo di cui porto il nome. Mi guardo attorno e mi scopro ad aver PAURA, per la prima volta in tutta la serata. Le ombre dei lampioni e dei cassonetti prendono vita, si muovono, e il profumo diventa sempre più forte. Sto diventando pazzo. Forse lo sono sempre stato. E' la droga. Sul muro accanto a me le ombre vanno a disegnare una figura sinistra, mostruosa: vedo CORNA, vedo ali e code. Non ci capisco più un cazzo e mi allontano dal muro quanto possibile, senza però riuscire a staccarne lo sguardo. Mi sta partendo la testa, lo so. Sono solo allucinazioni, nient'altro che allucinazioni. Poi ancora quel profumo, INTENSO. 
        - Tutta la tua SOFFERENZA. Tutto il tuo SANGUE. E' MIO -
E' la mia voce che sento. Eppure non è la mia. Mi tocco la gola mentre la figura sul muro mi fissa con i suoi occhi di FUOCO.
         Quello che vedo nel suo sguardo è TROPPO. Qualcosa scatta nel mio cervello, l'io cosciente non regge e va a rifugiarsi in un angolo remoto. Comincio a correre come un indemoniato, senza curarmi di niente, mentre sbatto addosso a cassonetti e specchietti di automobili. Faccio i GRADINI a tre a tre, entro in casa e busso in camera di Bud. Dalla sua faccia non devo essere messo granché.
         Poi vado in SHOCK.

sabato 22 settembre 2012

Una lunga notte (parte II)


East Side, Market Square

        Guardati lì, a terra, a mangiare la polvere. Debole, piccolo, inutile. Così coglione da startene appostato per dieci minuti e non esserti controllato le spalle nemmeno una volta. E adesso? Pensi di rimanertene lì ancora per molto o pensi di alzarti? Forza, Jamie, dimostra che hai ancora le palle, lì sotto. Sii uomo.
        Sì, papà, certo. Annaspo sul marciapiede per qualche secondo prima di riuscire ad issarmi su: sembra che le ginocchia stiano per cedere da un momento all'altro ma resto in piedi. Intanto tutto continua a vorticare freneticamente intorno a me, mentre tento di capire che cazzo è successo. Ok, classico calcio di pistola in testa, perfetto. Adesso devo solo aspettare che il mondo smetta di girare e mi permetta di puntare la Colt contro lo stronzo che mi ha ridotto così. Certo. Che ci vorrà mai. Tento di voltarmi verso la direzione da cui mi sembra arrivata l'aggressione ma faccio appena in tempo a distinguere una sagoma fra le lucine e le ombre che ancora mi annebbiano la vista, che subito mi arriva un pugno allo stomaco. Mi piego in due ma non mi accascio: ci vuole ben altro, cazzo. Il problema è che la mano che impugna la pistola non ne vuole sapere di alzarsi e puntare: l'intero braccio mi penzola inerte al fianco, senza forza. Mi appoggio con la spalla al muro e vomito un misto di succhi gastrici e pizza. Commozione cerebrale, proprio quello che ci voleva.
        Cristo come sei ridotto, figliolo. Lo dovevi sapere che sei troppo vecchio per queste stronzate: a una certa età bisogna avere la decenza di ritirarsi, come ogni fottuta star del baseball. Tu invece vuoi fare l'eroe? Eccoti servito.
        Grazie per l'incoraggiamento nel momento del bisogno, pà. Mi serviva proprio. Dopo pochi altri secondi, la nube attorno a me comincia a diradarsi abbastanza da smettere di sentire la voce di mio padre e da capire chi ho di fronte. Quello che vedo non mi tranquillizza nemmeno un po'. 
       - Tu, pezzo di merda. Ora viene a fare giro con noi. Posa cannone prima che ti spiezzo il braccio – parla quello alla sinistra. Sarà alto due metri, indossa un completo scuro sotto cui è facile intravedere i suoi centocinquanta chili di muscoli d'acciaio. 
       - No scherzi: lascia a terra pistola. Non te lo chiederò ancuora – mi incalza l'uomo sulla destra che mi tiene puntata addosso una Glock. Questo è lievemente più basso di me, ma probabilmente ha un braccio più largo di una mia coscia. 
       Noto in entrambi un forte accento russo... e questo non è un bene. Capisco che non posso fare il furbo con loro, non quando ho ancora le gambe che tremano e la testa che gira come dopo una sbronza colossale. Questa è gente che non scherza, non ha mai scherzato. Ve lo dice uno che lo sa.
        Faccio per posare il revolver a terra, delicatamente, quando sento una finestra che si spalanca proprio sopra le nostre teste. Gli amici di mio figlio hanno deciso di partecipare alla festa. Il russo colossale e palestrato solleva un Uzi verso la finestra e lascia partire una raffica: la buona notizia quindi è che non c'è un accordo fra i due. La brutta notizia è che questi stronzi sono armati pesantemente. Capisco subito che non avrò un'altra occasione per darmela a gambe e che devo sfruttare questa distrazione: scarto di lato e mi riparo dietro un cestino dell'immondizia sul marciapiede. Me la cavo con un proiettile nella spalla, una ferita superficiale, spero. So che non posso restare dietro il cestino: appena il gigante punta la potenza di fuoco del suo mitra verso di me sono fottuto. Spero solo che abbiano ricevuto l'ordine di prendermi vivo... ma temo che questo lo saprò comunque troppo tardi. Devo trovare una soluzione e alla svelta.
        Nel frattempo il simpaticone al secondo piano ha preso a sparare in strada e dal rumore sembra avere un bel fucile automatico con sé. La serata si fa sempre più piacevole. Esplodo un paio di colpi mentre rotolo lontano dal secchio, cercando di raggiungere l'angolo dell'edificio per nascondermi. Sento fischiare i proiettili intorno ma stavolta resto illeso. Mi volto e vedo Renton, rannicchiato dietro un'utilitaria, che non ci sta capendo un cazzo. Appena incrocia il mio sguardo se la dà a gambe: fanculo, ho altro a cui pensare adesso. Sento i russi che si scambiano qualche amichevole effusione col tizio al piano di sopra finché il suo fucile non tace. Le possibilità che si siano fatti fuori a vicenda sono remote così comincio ad indietreggiare tenendo sempre il revolver puntato verso l'angolo dietro cui mi sono nascosto. Nel giro di due secondi spuntano i due russi, lanciati all'inseguimento. Faccio fuoco e colpisco il primo al petto mentre l'altro schizza di lato e comincia a spararmi. Mi riparo dietro un paio di auto e cerco di ragionare. Fuggire a piedi non se ne parla: se ho fortuna avranno la metà dei miei anni, sono allenati mentre io ho fatto a malapena cinquanta metri e ho già il fiatone. Mettiamoci in più che ho un buco in una spalla e di sangue ne sta uscendo in abbondanza. Un altro cazzo di trench da buttare. Mi comprimo la ferita con un fazzoletto di cotone mentre vedo che il russo che ho colpito si alza da terra e avanza verso di me. Dannato kevlar! La mia auto è esattamente alle spalle dei due stronzi, l'unica cosa che posso tentare è farmi tutto il perimetro dell'edificio e sperare che i due siano abbastanza coglioni da seguirmi senza dividersi e chiudermi a tenaglia.
        Comincio a correre a perdifiato mentre sento i due dietro che mi incalzano, mi volto ogni tanto per sparare, per rallentarli, ma è impossibile colpirli senza mirare. Il cuore mi martella nelle orecchie come i bassi di un concerto death metal mentre arranco cercando di sfruttare ogni muretto, ogni minimo riparo per coprirmi le spalle. I proiettili si conficcano nel marciapiede subito dietro di me: mirano alle gambe, adesso. Credo. Quelle gambe che sento più pesanti ad ogni passo. Quelle gambe che non posso permettere di riposare. Maledico questi ultimi cinque anni di vita sedentaria, maledico ogni fottuta ala di pollo fritta e ogni birra in lattina scolata nei pigri sabato pomeriggio. Ma non posso mollare. Volto dietro l'ennesimo angolo: ne manca ancora uno poi mi troverò dal lato giusto. Dove mi aspetta l'unica possibilità di salvezza. Mi rendo conto che non so più se ho un ultimo colpo in canna o meno. Il tempo passa, la buona abitudine di tenere il conto mentale dei colpi esplosi si perde, come i ricordi di una vita che si tenta di dimenticare. Dannato vecchio coglione. I russi sono sempre più vicini, i loro colpi più pericolosi.
        Vedo l'ultimo angolo in lontananza ma il fiato è finito. Mi riparo dietro un cassonetto e tossisco l'anima mentre sento gli stronzi che si avvicinano cauti. Mentre sputo catarro mi sento come se anche i bronchi volessero affacciarsi dalla mia bocca per annusare la notte. Tossisco ancora e la manica del trench mi si sporca di sangue. E' per la ferita, mi dico. Certo. Per la ferita alla spalla.
        Percepisco che si trovano esattamente dietro il cassonetto e che se rimango lì ancora un secondo tanto vale alzare le mani e consegnarmi. Ma non è ancora arrivato quel giorno. Sferro la spallata più potente che riesco a mettere insieme al cassonetto, che si sposta e travolge chiunque vi si trovasse dietro. Non perdo altro tempo e mi fiondo arrancando verso l'ultimo angolo.
        Quando mi volto mi rendo conto che a seguirmi è rimasto solo uno dei due, quello basso, non voglio sapere che fine abbia fatto l'altro. Mi lancio verso la mia Cadillac gialla riparandomi dietro un altro paio di auto parcheggiate mentre i colpi mi sibilano attorno. Apro la portiera ma mentre faccio per entrare il russo mi centra un polpaccio. Istintivamente mi giro e faccio fuoco dritto verso la sua faccia. Bang. L'ultimo colpo. Culo.
        Erano anni che non uccidevo un uomo. Non sono cose che ho mai fatto a cuor leggero, ma quando mi insegui sparando per tre isolati tendo a diventare estremamente suscettibile. Bastano pochi secondi per rendermi conto che la mia fortuna si esaurisce lì: la macchina non parte, ovviamente, sabotata. I russi devono avermi seguito da parecchio, dal magazzino dei cinesi o forse addirittura da quando sono entrato nell'East Side. E io sono così arrugginito che nemmeno me ne sono accorto. Hanno avuto tutto il tempo di manomettere la vettura mentre io giocavo a fare l'investigatore con gli spacciatori di Junior.
        E così ti hanno fottuto, Jamie. Sta zitto, papà. Cazzo. 
       - Ora vieni fuori, struonzo, mani bene in vista! -
E' arrivato l'altro russo, alto due metri, che mi punta contro il suo bel mitra. Possibilità di uscire vivo da uno scontro corpo a corpo: zero. Scendo lentamente dalla macchina per evitare di innervosirlo ulteriormente e dargli la scusa di farmi fuori. Gli ho appena steso il collega, vedo che freme di rabbia e che non chiede altro che un mio passo falso. Ma è un professionista e non cede: controlla se ho altre armi addosso, mi ammanetta i polsi. E io ancora respiro a fatica. Poi mi conduce verso un piccolo furgone metallizzato, parcheggiato poco vicino. Mi fa salire sul retro, mi fa voltare. Poi arriva l'ennesimo colpo alla testa, preciso, e tutto comincia a farsi scuro mentre cado in ginocchio.
        La mia coscienza sta per scivolare nel nero più nero ma cerco di resistere e di pensare. Qualcuno mi ha fottuto. Qualcuno ha parlato e ha fatto nome, posto e ora. Penso agli sguardi dei china-boys, a quelli che mi hanno riconosciuto. No, non possono aver fatto in tempo. Ero lì nemmeno un'ora fa, nessuno ha contatti così rapidi. L'unico a sapere da prima chi ero e dove sarei andato... era Shin-Lang. Perché mi ha mandato lui qua, in questa fottuta trappola. La vera domanda è “perché”?
        Indugio ancora qualche secondo poi crollo. L'ultima cosa che ricordo è il sapore di frutta marcia dei cartoni stesi a coprire il fondo del furgone e l'odore del mio sangue che scivola lento via da me.

sabato 15 settembre 2012

Una lunga notte (parte I)

East Side, magazzino abbandonato sulla tredicesima 

        La notte è fredda come non mai mentre cammino nelle vie scarsamente illuminate del quartiere. La mente corre ad Aileen: so che stavolta non capirà, non me la farà passare liscia. Ogni respiro fa arrivare al cuore fitte di vetro congelato, il vento sferza i muri e le saracinesche dei negozi chiusi lungo la tredicesima. Ho lasciato la macchina a due isolati dal magazzino per garantirmi un po' di discrezione e avere il tempo di riflettere. L'ultima volta che ho incontrato Shin-Lang era un adolescente brufoloso e con un pessimo carattere; adesso dicono sia uno dei pezzi più grossi della mafia cinese sulla costa orientale. Mi stupisce la rapidità con cui cambiano i vertici delle organizzazioni criminali negli ultimi anni: ai miei tempi non era così. Nascevi e morivi e le cose attorno a te sembrava quasi non mutassero, avevi certezze, pilastri a cui aggrapparti quando tutto sembrava crollare. Non posso fare a meno di pensare che questo continuo far “saltare teste” tipico di quest'ultima generazione renda il mondo ancora più folle, violento e senza senso di quanto sia mai stato. Ammesso che tutto ciò un senso l'abbia mai avuto. 
        A guardarlo da fuori appare come un edificio fatiscente, un magazzino abbandonato, chiuso da anni. Le pareti con l'intonaco crepato, vari strati di graffiti sui muri, senza soluzione di continuità. Lo stesso portone arrugginito da l'impressione di poter essere sfondato con un paio di pedate ben assestate. E in effetti sarebbe anche così, se non fosse che ad attendere subito dietro ci sono almeno mezza dozzina di mitra pronti a crivellare l'incauto visitatore. Non che siano mai capitati simili spiacevoli episodi: i cinesi sono sempre stati discreti e puliti nel loro lavoro, e nessuno è mai stato così pazzo da andare a “citofonare” al magazzino sulla tredicesima senza essere stato invitato. 
       Quando mi avvicino al portone prontamente si apre uno spioncino da cui cominciano a fissarmi sospettosi due occhi a mandorla. 
       - Sono solo un vecchio amico -
Fortunatamente il mio arrivo è già stato annunciato perchè in pochi secondi il portone viene leggermente aperto e vengo fatto penetrare all'interno del più importante covo della mafia cinese di tutta la Città. Sono sorpreso perchè non vengo nemmeno perquisito, un atto di cortesia d'altri tempi. Devi ancora godere di un certo rispetto almeno fra questa gente, vecchio. L'interno dell'edificio è stato recentemente ristrutturato, niente di particolarmente appariscente ma quantomeno non da l'impressione di dover crollare da un momento all'altro come la facciata esterna. In ogni caso niente dragoni cinesi dipinti o lampade di carta rossa: la tradizione è morta da tempo. Vedo una sala comune: intorno ai tavoli è pieno di china-boys che scarrellano semiautomatiche, tirano botte di coca e contano dollari imbrattati. Odore di casa. Tento di muovermi con naturalezza, senza destare troppo l'attenzione dei presenti, ma mi rendo conto che in molti si accorgono della mia presenza anomala. Qualcuno mi riconosce pure, temo. Cazzo. Tempo domani mattina tutto l'East Side saprà che sono stato qui. Ignoro tutti e mi dirigo a passo svelto verso il piano superiore, dove in una sorta di ufficio mi attende Shin-Lang, intento a fumare crack e a guardare fuori dalla finestra. 
       - ... e così entro un paio di giorni tutti sapranno che Ol' James è tornato e si è messo a lavorare coi cinesi. Un bel colpo, eh? - esordisco. 
Lui si volta e mi guarda con lo sguardo stralunato del fumato, ma so benissimo che sotto quella patina il ragazzo è fin troppo lucido. Si aggiusta i lunghi capelli neri sciolti e si gratta distrattamente la barba scura, che lo fa sembrare molto più vecchio di quanto sia in realtà. Necessità estetiche di un boss troppo giovane. 
       - Fino a prova contraria sei stato tu a bussare alla mia porta, “Ol' James” - sottolinea sarcastico – io sto solo facendo un favore al mio povero vecchio zio - 
       - Suvvia, Shin, lo sappiamo entrambi che hai smesso da tempo di prendere ordini da Tai-Chi. Se sono qui è solo perchè la mia presenza ti fa comodo, per una questione politica, d'immagine. Oltretutto ho anche intenzione di occuparmi gratuitamente di una faccenda scomoda. Un vero affare per te - 
Poggia le mani sulla scrivania e mi fissa con durezza. 
       - Ti stai forse tirando indietro, Scott? - 
Mi guarda e leggo la minaccia nei suoi occhi. E' abituato a trattare così con la gente, sottoposti e rivali. Ma io sono troppo vecchio e stronzo, troppo navigato, per farmi intimidire da un ragazzino: sostengo lo sguardo e lo provoco. 
       - Secondo te? - 
Il cinese ci pensa su per un attimo, poi cambia registro e torna conciliante.
        - No, certo che no. Tu non sei come la feccia là fuori. Perdona l'irruenza ma... ultimamente ho troppi cazzi per la testa - 
La tensione scema e io mi accendo una sigaretta prima di riprendere a parlare. 
       - Nessun problema, boss, ma adesso veniamo a noi. Sono stato al tuo gioco e sono venuto fin qui, pur sapendo che la voce si spargerà, che anche i fottuti russi lo sapranno, e che per me saranno cazzi nel giro di pochi giorni. Cosa hai per me? - 
       - Louis Renton, è uno dei “distributori” di tuo figlio. I piccoli spacciatori si riforniscono da lui, poi si dividono il territorio e ricoprono l'East Side di roba. E' l'uomo più vicino alla “fonte” che siamo riusciti a trovare e non è stato facile: cambiano punto d'incontro ogni settimana e dobbiamo ancora capire come riescono a passarsi le informazioni... tutto questo per dirti che potresti avere solo questa possibilità, per parecchio tempo - 
       - Non avrò bisogno di una seconda - 
       - Bene. Tra l'una e un quarto e le due, vicino alle cassette della posta, proprio davanti al Mercato generale - 
Mancano tre quarti d'ora, è meglio che mi sbrighi anche perchè non credo che Shin-Lang abbia molto altro da dirmi. Gli tendo la mano per congedarmi ma lui mi ferma. 
       - Aspetta: immagino tu abbia bisogno di un'arma e di qualche uomo - Sorrido mostrando il mio solito ghigno mangiamerda. 
       - Lavoro meglio da solo, boss, grazie. Quanto al resto... ho questa – scosto leggermente il trench e lascio intravedere la fondina legata sul costato. 
       - Un revolver? Cazzo, non ne vedevo uno da 15 anni. Anche il più coglione gira almeno con una semiautomatica al giorno d'oggi. Lascia che ti procuri qualcosa di serio - 
Ah. I soliti giovani d'oggi: praticoni, abituati alla pappa pronta. Abituati a svuotare caricatori interi e a mettere a segno due o tre colpi. Con un revolver hai sei fottuti proiettili e li devi far fruttare, ne dipende la tua sorte. Non puoi permetterti di calare in concentrazione. Inoltre un revolver con una buona manutenzione NON si inceppa. Mai. E' uno dei pochi compagni che non ti abbandona sul campo. E poi... 
      - Questo non è “un” revolver, ragazzo. E' una Colt Python del '79, canna da sei pollici, calibro .357 Magnum. Fora la lamiera di qualsiasi automobile e apre buchi di 10 cm di diametro nel petto di un uomo. Sottovalutarla è un errore che la gente non ripete due volte - 
E così dicendo esco dalla stanza, mentre lo sento bisbigliare alle mie spalle qualcosa come “vecchio pazzo, si farà ammazzare”. Incasso il complimento e me ne fotto, mentre esco dal magazzino. Questo vecchio pazzo ha del lavoro da fare. 

       Arrivo al piazzale con dieci minuti d'anticipo così ho appena il tempo di studiare i dintorni. Fortunatamente conosco bene la zona: prima che il Mercato venisse rimesso in uso lo utilizzavamo come scalo per i nostri traffici di alcol e armi. E' un bene che l'appuntamento non sia all'interno dell'edificio perchè penetrarvi sarebbe stato pressoché impossibile, senza qualcuno a pararmi il culo. Meno positivo è il fatto che sicuramente avranno appostato un cecchino al secondo piano o sul tetto: le cassette della posta sono un bersaglio perfetto e sono anche fin troppo vicine. Una volta finite le trattative devo trovare un modo di attirarlo rasente al muro, al riparo. Ma poi, dopo averlo preso, che fare? Usarlo come ostaggio sarebbe una stronzata: con ogni probabilità i cecchini hanno l'ordine di far fuori lui e chiunque rompa le palle, in caso di problemi. 
       Nascosto da un vicolo laterale ad un centinaio di metri dalle cassette, comincio ad osservare il Mercato cercando di stanare la posizione di eventuali cazzoni appostati dietro le finestre. Quando si avvicina l'ora X vedo una saracinesca al secondo piano che si solleva impercettibilmente, proprio sopra le cassette della posta: perfetto. Mentre le prime figure cominciano ad assieparsi vicino al luogo dell'appuntamento io inizio a muovermi, facendo un largo giro del piazzale e sfruttando ombre e punti morti del cecchino, per arrivare in una zona da dove osservare bene la situazione. Dopo cinque minuti di manovre riesco a piazzarmi dietro l'angolo dello stesso Mercato, ad una ventina di metri dallo spaccio, e prego con tutte le mie forze di non essermi fatto notare lungo il tragitto. Se così fosse, sono fottuto. Adesso non mi resta che aspettare che lo smercio finisca e sperare di aver indovinato il lato giusto dell'edificio. Se infatti Renton una volta finito si dirige dall'altro lato le possibilità di raggiungerlo sono minime. Ma dall'altro lato c'è la  quarantasettesima, una strada trafficata, l'accesso più visibile al piazzale. In tanti anni di contrabbando non ho mai usato quel lato per “sparire” a lavoro terminato, perciò mi fido del mio istinto. 
       Passano altri cinque minuti, mentre io regolarmente sbircio da dietro l'angolo. Non dovrebbero avermi notato perchè lo scambio avviene regolarmente: Renton è quello con lo zuccotto di lana blu, ha due grosse borse da palestra da cui estrae quelle che sembrano scatole da scarpe e ne consegna una ad ognuno. Gli spacciatori sono giovani, quasi tutti teenager: gli passano dei mazzetti di dollari che lui mette via senza neanche contare. Quegli stronzetti devono aver talmente paura da non rischiare di fare i furbi. 
       Quando lo scambio termina, i ragazzi si allontanano in direzioni diverse: chi attraverso la piazza, chi per la quarantasettesima. Nessuno viene verso di me. Azzardo un'ultima occhiata e vedo Renton che si muove a passo deciso verso la mia posizione (Bingo!), pur rimanendo ben distante dal muro, sotto il tiro del cecchino. Sembra magrolino, sotto il giaccone invernale. Buona cosa. Ma se gli sparo su una gamba adesso, il nostro amico lassù lo finisce prima che io possa anche solo avvicinarmi. Niente da fare, devo sfruttare l'unico punto morto disponibile: l'esile albero sul marciapiede, a pochi passi dall'angolo dietro cui sono nascosto. Chiamarlo punto morto è prendersi per il culo, la copertura è ridicola... ma sempre meglio di niente. Confido nel fatto che mio figlio non paghi sicari professionisti armati di mirino laser per un semplice smistamento di droga. Attendo il momento giusto e perfeziono il piano. Un primo colpo lontano, in direzione della cassetta della posta, per creare confusione. Il secondo dritto al ginocchio di Renton. Poi trascinare il cazzone al riparo dal fuoco: ho la macchina a pochi metri nella via laterale, se ho culo riesco a caricarlo e a filarmela prima di ritrovarmi gli scagnozzi di Junior incollati alle chiappe. Mh. Bel piano di merda. 
       Precisione e rapidità di esecuzione. Ecco quello che ci vuole. Estraggo la Python e prendo la mira. Renton supera l'albero e entra nella zona d'ombra. Tiro il cane e mi preparo a far fuoco. 
       Poi, dal nulla, mi arriva un colpo potente alla nuca. 
E il mondo si rovescia.

sabato 8 settembre 2012

Il suo nome è Aileen


The Green, quartiere residenziale, caseggiato numero 7

        Indosso questo modello di trench da trentanni. Color beige scuro, tre quarti, cinta larga con fibbia di metallo, bavero alzato a coprire il collo. Un must. Ne ho cambiati una montagna: usura, strappi, fori di proiettile, macchie di sangue. Qualcuno l'ho perso durante qualche “operazione” andata storta. Ma ogni volta mi trovo a ricomprarne uno: non so nemmeno io se si tratta di un rito, un modo per esorcizzare il tempo che passa, oppure semplicemente è gusto personale. Che poi col freddo di quella sera sarebbe stata molto più adatta una giacca a vento. Ma che ci volete fare? Ognuno ha le sue fissazioni, che amiamo giustificare contro ogni condizione climatica avversa. E poi, dopotutto, avevo altro a cui pensare.
         Il Green è il quartiere in cui vivevo, una zona residenziale abbastanza lontana sia dalla fogna dell'East Side sia dal frastuono yuppie dell'Upper Side. Prende il suo nome dall'enorme parco che si trova al suo centro, meta di tutti i cittadini desiderosi di una boccata d'aria pulita, in attesa di rituffarsi nei fumi cancerogeni del traffico metropolitano. Attorno al parco, curato e sorvegliato durante tutto l'anno, sorgono villette di varia foggia, roba per ricchi che campano di rendita, dirigenti d'azienda pensionati e avanzi di galera coi soldi come il sottoscritto. Avevo deciso in ogni caso di mantenere un profilo non esagerato, per non dare troppo nell'occhio ed evitare domande scomode. In realtà non avevo neppure tutti quei soldi che si diceva in giro io avessi. Diciamo abbastanza grana da non dover lavorare più: ma alla mia età e col numero di pallottole prese in carriera, si trattava né più né meno di un'onesta pensione. Il difficile era arrivare a godersela questa pensione.
        Prima di imboccare la strada di casa mi fermo al bar a comprare la mia morte in pacchetti da venti.
       - Due pacchetti di Marlboro rosse, morbide -
       - Il solito eh, mister? -
Bill, il tabaccaio sudaticcio e dai capelli unti, tenta di fare conversazione. Non sa che non me ne può fottere di meno delle sue chiacchiere in questo momento. Accenno un mezzo ghigno, gli lascio i soldi ed esco. Alzo gli occhi al cielo notturno, terso nonostante la stagione invernale, mi rialzo il bavero e mi accendo una sigaretta. Dopo due boccate mi sale su una brutta tosse secca che mi raschia la gola come un rasoio scheggiato. Sputo catarro punteggiato di nero e riprendo a camminare. Provateci anche voi a fumare due pacchetti al giorno per cinquantanni, poi ne riparliamo. Non che non mi preoccupasse quella tosse: nell'ultimo mese non faceva che peggiorare, mi ritrovavo ad ansimare anche dopo una semplice passeggiata. Ma da lì a prendere un appuntamento dal medico, ci passava. Da lì a smettere col fumo, figuriamoci. E' una faccenda di stile: guardatemi adesso, col mio trench e la mia sigaretta in bocca. Un gran figo nonostante la mia età. E poi, diciamoci la verità, non potrei smettere nemmeno se volessi. Credete a me: le industrie del tabacco balleranno sulle nostre ceneri, dopo l'Armageddon.
        Dopo pochi minuti arrivo alla mia villetta, lievemente in disparte rispetto alle altre: una casetta in muratura bianca, muretto di mattoni e cancello in legno. Percorro il vialetto di selciato attraverso il modesto giardino, pochi scalini e arrivo alla veranda. Poi, la porta dipinta color magenta. Dietro la porta, Lei. Il vero motivo per cui qualsiasi uomo, la sera, non desidererebbe altro che tornare a casa.
        Il suo nome è Aileen. La sua pelle è cioccolato fine, il suo profumo quello delle erbe caraibiche più aromatiche e i suoi occhi, verdi come il mare della sua terra. Mi guarda, sorride, e non dice niente. Mi viene incontro e mi abbraccia e di colpo la stanchezza di tutta la giornata, i pensieri neri e le preoccupazioni delle ultime ore, vengono spazzati via come non fossero mai esistiti. Mi abbandono al contatto col suo seno caldo e ispiro a pieni polmoni l'odore dei suoi capelli. Capelli neri come il profondo della foresta più remota. Per un attimo penso che potrei rimanere lì per sempre, in piedi sulla porta di casa, dimenticare tutto e vivere solo di questo. Poi mi ricordo di Junior, di Tai-Chi e della droga. E il sorriso scompare.
        Durante la serata non parlo molto, non che di solito io sia un abile oratore. Tiro qualche maledizione contro le notizie del telegiornale mentre mangiamo pizza, fumo cinque o sei sigarette e a fine pasto mi bevo le mie solite tre dita di scotch invecchiato quindici anni. Dentro di me si sta abbattendo una tempesta ma cerco di non darlo a vedere. Peccato che la ragazza mi conosca troppo bene per non notarlo.
        Incontrai Aileen per la prima volta ventanni prima, quando lei era poco più di una ragazzina sola in una terra sconosciuta e lontana da casa. Lo Zio Sam l'aveva accolta come solo lui sapeva fare: un lavoro da puttana nel giro della prostituzione ispanico, tre o quattro case chiuse nell'East Side e qualche mignotta per strada. Per lei, figlia di due immigrati cubani scomparsi in qualche retata della polizia, non c'erano altre possibilità. Ma già da allora si poteva intuire che non era come tutte le altre. Una bellezza mozzafiato, una mente pratica e fegato da vendere: non restò a battere per molto. Riuscì a ingraziarsi Alejandro, il boss degli ispanici, che in cambio “dell'esclusiva” la mise a gestire uno dei suoi bordelli. In quegli anni io mi occupavo di rifornire d'alcolici di contrabbando tutto l'East Side e ricordo bene di aver fatto qualche affare anche con lei. Mi colpì subito per la giovane età e l'abilità con cui gestiva la casa, i conti e la sicurezza delle “sue ragazze”, in gran parte più grandi di lei. C'era chi diceva che una volta avesse sorpreso un coglione a picchiarne una nelle sue stanze: bè, pare che il tipo si ritrovò sbattuto fuori dal locale con in mano un bicchierino di carta. Con dentro le proprie palle. Che dire? Una selvaggia bomba sexy con un cuore da tagliagole: ne conoscevo di donne e lei era forse la più interessante che avessi mai incontrato. Già allora ci feci un pensierino... ma cosa pretendete? Ero sposato e con un bambino piccolo. Lasciai correre.
        Ne è passata d'acqua sotto i ponti da allora: lei non è più una ragazzina, io non sono più un contrabbandiere in piena carriera. Siamo in cucina e abbiamo finito di mangiare. Lei è seduta davanti a me e mi fissa da cinque minuti mentre io fingo di concentrarmi a leggere il giornale. Poi lei attacca.
       - Mi vuoi dire cos'hai? -
Capisco subito che è inutile resistere, non ne ho la forza. E in ogni caso gliene avrei dovuto parlare, prima o poi. Tanto vale. 
       - Ho fatto un salto nell'East Side. Sai, quelle voci su Junior... erano vere. Più tardi ho un appuntamento con della gente che può aiutarmi a trovarlo, voglio parlarci -
Mi guarda per qualche secondo cercando di dominarsi. Poi esplode. Non l'ha presa bene.
       - Tu devi essere fuori di testa, Harry. Ci abbiamo messo una vita a venir fuori da quella merda e adesso tu ti ci ributti dentro alla prima occasione? Cosa cazzo sei uno di quei vecchietti che non riescono ad accettare di essere andati in pensione e devono fare i giovani a tutti i costi? -
       - Grazie per la frecciata, tesoro, ti amo anch'io. Ti assicuro che non lo faccio perchè sono un fottuto drogato di adrenalina. Lo faccio per Jun... -
        - Junior, certo! Buona questa. Te ne sei sempre fregato di tuo figlio e adesso improvvisamente scopri di avere un senso di paternità! -
E' bellissima quando si arrabbia, lo è sempre. Quasi perdo la concentrazione mentre noto il movimento dei suoi capezzoli sotto la t-shirt attillata: non porta il reggiseno.
       - Non ho mai avuto un gran rapporto con lui, è vero. Ma mi sono sempre preoccupato che non gli mancasse niente. Gli ho fatto anche avere un assegno da 90.000 dollari per le spese del college -
       - La verità, Harry, è che non vi siete mai sopportati, e non saranno i tuoi soldi del cazzo a cambiare le cose. L'hai sempre tenuto lontano da te perchè ti ricordava Dora! -
Grida le sue parole come fossero schiaffi. Mi ferisce. Mi ferisce nella parte più delicata dei miei ricordi. Mi ferisce perchè so che sta dicendo la verità. Per un attimo, forse per la stanchezza o per l'alcol, ho un impulso violento di prenderla per i capelli e fargliela pagare. Lei deve notare qualcosa dietro il mio sguardo perchè arretra leggermente sulla sedia. Io mi vergogno come un ladro e abbasso lo sguardo. Non potrei mai farti del male, amore mio, mai. Non lo dico ma qualcosa si incrina dentro di me mentre chino il capo quasi a sfiorare il tavolino. Poi sento la sua mano che mi accarezza dolcemente i capelli. 
       - Va tutto bene, amore, tutto bene. Io... ti perdono -
Dio solo sa che ogni uomo ha un bisogno disperato di qualcuno che lo perdoni. Chiunque abbia vissuto una vita come la mia, una vita in cui così spesso la violenza toglie un senso ad ogni cosa, ha bisogno di un riparo, un porto sicuro dove far riposare le proprie membra stanche. C'è chi crede in qualcosa di superiore, chi ha la sua divinità fai-da-te. Io ho Aileen. Lei mi assolve dai miei peccati mentre annego tra le sue braccia.
       - Ti prego, tesoro, non tornare laggiù. A loro non interessa “perché” lo fai, penseranno che sei tornato per rientrare nel giro. Finirai per farti ammazzare. E io non potrei sopportarlo -
Alzo gli occhi e incrocio il suo sguardo liquido che sa di spuma e sa di sale. Lei lascia scivolare la mano fino ad accarezzarmi le rughe attorno agli occhi, poi indugia sulla barba ispida e la mascella quadrata.
       - Non andare, Harry. Promettilo -
       - Va bene -
       - Promettimelo -
       - Te lo prometto -
Mi bacia, a lungo e con delicatezza. Un bacio che è giuramento, è fiducia e tradimento, patto suggellato dalle labbra più dolci del mondo. Dopo mi prende per mano e mi conduce in camera da letto. Si sdraia e mi attira sopra di sé. Così facciamo l'amore, lo facciamo come fosse l'ultima notte del mondo. Perché ogni notte può essere davvero l'ultima ed io e lei lo sappiamo bene.
        Una volta finito lei si addormenta, girata verso di me. Il suo viso è salvezza e condanna, veleno e medicina. Io resto a guardarla con venerazione, come si guarderebbe una statua in un museo, mentre sul mio volto si disegna il sorriso amaro di chi sa già come andrà a finire.

Venti minuti dopo sono fuori di casa: lo sguardo duro nella notte, il revolver carico nella fondina, la sigaretta in bocca e addosso il mio trench. Il solito vecchio trench.

sabato 1 settembre 2012

Chiacchierata ai vespri sotto una pagoda indaco

East Side, angolo fra la 33esima e la 25esima.
 
       Risalire alle origini di tutto questo non è facile né indolore: bisogna rimestare in angoli bui dove i ricordi sono impastati con fango e sangue e ogni memoria esplode nella testa come il suono di una 44 magnum o di un bambino che piange. In alcuni terribili casi contemporaneamente.
        Quel pomeriggio di inverno esco di casa con l'inquietudine tipica del criminale di vecchia data, quello che sa che ogni minimo passo falso può condurlo in fondo al pozzo. E il pozzo, quando va bene, è un posto pieno di sbarre, secondini violenti e cibo scaduto. Quando va male, bè, lo sapete. Una sensazione che era fin troppo tempo che non provavo. Decido di non farci caso, in fondo non avevo più nulla da temere: niente conti in sospeso, niente affari in ballo. Da anni. Tanto era infatti che non varcavo i confini dell'East Side, che non annusavo l'odore tipico di un quartiere perduto e lasciato a marcire da ogni autorità. L'odore del quartiere in cui ho vissuto quasi tutta la mia vita. E quell'odore, no, non era affatto cambiato. Non cambia mai.
        L'East Side è una città nella Città. Un microcosmo popolato dalla peggiore feccia, segregata in un angolo per tenerne lontana la puzza, separata dalla “gente per bene”. L'East Side è un coltello piantato nella gola mentre una mano grassa e sudata ti tiene per le palle. Puoi venirci di notte o puoi venirci di giorno ma non sarà mai veramente illuminato: troverai sempre una veranda in cui far scivolare roba da una mano all'altra, una fogna in cui nascondere il frutto di una rissa finita male, un vicolo in cui far tua la troia più a buon mercato che sei riuscito a trovare. Questo lo so perchè per anni quelle ombre, quei chiaroscuri, sono stati il teatro del mio sporco lavoro. Ma ora non più: lasciare il giro non era stato facile, non lo è mai, avevo dovuto riscuotere non pochi favori, troncare numerose “amicizie” e spendere gran parte dei miei fottuti risparmi... ma alla fine ero uscito pulito. Magari col tempo avrei anche imparato a togliere la pistola da sotto il cuscino, nel sonno. Magari. Col tempo.
        La temperatura scendeva vertiginosamente col calare del sole così, una volta uscito dalla metro, mi accendo una sigaretta e mi incammino subito lungo la 33esima. Saranno state le sette di sera. Evito i soliti sacchi di rifiuti abbandonati sul marciapiede e rimango catturato dai murales che ricoprono quasi la totalità dei muri della strada. La luce del tramonto regala una sorta di tridimensionalità ai mostri e alle caricature dipinte, che svettano attorno a me come sinistri guardiani dell'inferno. Perchè è proprio quello che mi appresto a fare: scendere all'inferno. La fauna che popola la zona è la stessa di sempre: negri e ispanici che scazzano fuori dai locali, spacciatori e puttane che trattano coi clienti mentre grassi papponi sorseggiano cocktail e controllano il giro. Il solito. Dopo qualche passo spunta una mano da un vicolo laterale che nemmeno avevo notato e mi afferra il trench da dietro. Un altro classico: il tossico in astinenza che ti punta un serramanico in faccia per toglierti quei due soldi che hai faticosamente e disonestamente guadagnato. Ha delle occhiaie tremende, il viso emaciato da “ultimo stadio” e si regge a stento in piedi.
       - Bello quel cappotto, chissà quanto vale – comincia muovendo la lama a destra e a sinistra.
       - Probabilmente più di te, coglione -
Gli afferro il polso prima che riesca a replicare e glielo torco verso il basso finché non molla il coltello, poi lo trascino nel vicolo da cui è sbucato.
       - Ascoltami bene, piccolo figlio di puttana, lo so che sei troppo fatto per capire quello che ti succede intorno ma c'è una cosa che devi imparare: NON. CACARE. IL CAZZO. AGLI ANZIANI – sottolineo ogni parola con uno schiaffo, mentre lo tengo per il bavero.
        Per poco non si mette a piangere. Mpf. Non c'è più rispetto per le persone di una certa età. Mentre lo scuoto gli cadono dalle tasche dei pantaloni laceri una mezza dozzina di piccoli tubetti di colore azzurro che a prima vista non riconosco.
        - Ora sta buono! - gli sibilo a due centimetri dalla faccia prima di sbatterlo un'ultima volta contro il muro del vicolo. Lui si accascia al suolo come un sacco e io mi fermo a raccogliere uno di quei tubetti: le dimensioni sono quelle di un rossetto, hanno un cappuccio che nasconde la punta di un ago. Sul retro c'è un pulsante che fa emergere l'ago e consente l'iniezione di qualsiasi merda si spari in vena il tossico. Mi infilo il tubetto vuoto in tasca e me ne vado senza degnarlo di uno sguardo. Fanculo.
        Cammino per altri cinque minuti, il tempo di un'altra sigaretta, poi alzo gli occhi e vedo in lontananza la mia destinazione: la storica pagoda indaco sull'insegna gialla, il takeaway di Tai-chi. Conoscevo il vecchio cinese da più di una vita, abbastanza per fidarmi della sua discrezione sulla mia incursione nell'East Side. Quando mi avvicino al bancone lo riconosco subito: Il lungo pizzetto bianco ancora al suo posto, qualche ruga in più sul viso tondo, forse, ma lo sguardo ancora vigile e penetrante come un tempo. Immutato e immobile alla sua postazione da chissà quanti anni, come un soldato troppo diligente durante il turno di guardia. Uno dei pochi veri monumenti dell'East Side.
       - Ni hao, mio vecchio amico, ti porgo i miei saluti –
Tai-chi era sempre stato uno all'antica, e quella certa formalità lo rassicurava e gli garantiva un certo alone da persona rispettabile e saggia. Sulla saggezza niente da obiettare ma quanto alla rispettabilità, bè, bisognerebbe chiedere a quel russo rompicoglioni che il vecchio Tai fece a pezzi, anni fa. Un pezzo alla volta, con meticolosità e perizia, curandosi di fermare ogni volta l'emorragia: per far sì che il divertimento non finisse troppo presto.
Quando mi vede per poco non mi riconosce.
       - Oh, chi si vede da queste parti! Harry “Ol' James” Scott in persona che mi onora della sua compagnia. Non sei affatto invecchiato in questi anni -
       - Vorrei che fosse la verità, Tai-chi, ma non siamo tutti fortunati come te. In ogni caso l'onore è solo mio, ma dimmi... fai ancora i noodles più buoni di tutto l'East Side? -
        Non risponde ma sorride, mostrando la sua dentatura perfetta nonostante l'età avanzata, e si mette subito al lavoro sui fornelli. Perché alla sua età e con la sua posizione all'interno della mafia cinese ancora si affatichi tagliando e friggendo verdure e frutti di mare resta un mistero. Dopo pochi attimi mi porge con delicatezza un cartoccio caldo che emana un profumo delizioso, poi si ferma a guardarmi dritto negli occhi.
       - Ma tutti e due sappiamo che non sei qui per i miei spaghetti. O mi sbaglio, forse? -
        - Non sbagli. E qualcosa mi dice che già conosci il motivo che mi ha riportato quaggiù, dopo tanto tempo -
       Lo sguardo di Tai-chi si oscura leggermente mentre il sorriso svanisce dal suo volto. Capisco che non riprenderà il discorso se non sarò io a introdurlo per primo, forse spera di sbagliare o semplicemente teme di offendermi in qualche modo. Respiro profondamente.
        - Voglio sapere di Junior, Tai-chi -
Il vecchio cinese sospira, poi inizia a parlare come se un peso insostenibile lo schiacciasse in fondo al cuore.
       - A dirti la verità, Scott, sono preoccupato. Il ragazzo sta pestando i piedi sbagliati, non mostra rispetto per nessuno, di questo passo... -
       - COSA fa esattamente? -
       - Droga. Ha creato un giro nel quartiere negli ultimi mesi, spaccia una sostanza nuova, mai sentita prima. La chiamano Cobalto -
       - Droga – mi fermo a riflettere.
Le voci che mi erano arrivate erano vere, allora. La mano corre nell'impermeabile a toccare il tubetto azzurro che avevo raccolto poco prima. Rischio di perdermi nei miei cupi pensieri ma so che Tai-chi non ha ancora finito.
       - Il problema, Scott, non è la droga, lo sai. Qui nell'East Side nasce un nuovo giro ogni giorno, spacciatori vengono fatti fuori e il giorno dopo rimpiazzati come se nulla fosse. Ma ci sono sempre state delle regole. Regole dinanzi cui tutti, i più grandi come i più piccoli, si sono dovuti piegare. Tu lo sai bene: territori, limiti, tangenti da pagare. Tuo figlio se ne fotte, Scott. I miei ragazzi hanno beccato i suoi che smerciavano roba fuori dalle scuole medie: ci vanno i nostri bambini lì. Shin-Lang non aspetta altro che spezzargli le gambe, non appena lo avrà sotto mano... io, per rispetto a te, tento di tenerli a bada ma è sempre più difficile -
       Abbasso lo sguardo mentre, scuro in viso, rispondo a Tai-chi.
       - Ti ringrazio, ma non posso chiederti tanto. Il ragazzo sta pisciando fuori dal vaso e lo si deve raddrizzare prima che qualcuno si faccia male. Ho bisogno di scambiarci due parole... ma immagino sia irreperebile -
       - Posso metterti in contatto con Shin-Lang, sta seguendo da vicino il giro di tuo figlio, potrebbe indicarti alcuni suoi spacciatori. E' una pista esile ma... -
        Quando poco dopo esco dal locale e mi incammino verso casa ho la testa talmente piena di pensieri che la sento martellare senza sosta dall'interno. Tiro fuori le Marlboro e me ne accendo una mentre guardo in faccia la notte che ormai è sopraggiunta. Il vento freddo mi taglia la faccia senza pietà. Infilo i guanti e premo i pugni in fondo alle tasche.
        Cristo santo, Junior. Che cazzo stai combinando?