sabato 22 settembre 2012

Una lunga notte (parte II)


East Side, Market Square

        Guardati lì, a terra, a mangiare la polvere. Debole, piccolo, inutile. Così coglione da startene appostato per dieci minuti e non esserti controllato le spalle nemmeno una volta. E adesso? Pensi di rimanertene lì ancora per molto o pensi di alzarti? Forza, Jamie, dimostra che hai ancora le palle, lì sotto. Sii uomo.
        Sì, papà, certo. Annaspo sul marciapiede per qualche secondo prima di riuscire ad issarmi su: sembra che le ginocchia stiano per cedere da un momento all'altro ma resto in piedi. Intanto tutto continua a vorticare freneticamente intorno a me, mentre tento di capire che cazzo è successo. Ok, classico calcio di pistola in testa, perfetto. Adesso devo solo aspettare che il mondo smetta di girare e mi permetta di puntare la Colt contro lo stronzo che mi ha ridotto così. Certo. Che ci vorrà mai. Tento di voltarmi verso la direzione da cui mi sembra arrivata l'aggressione ma faccio appena in tempo a distinguere una sagoma fra le lucine e le ombre che ancora mi annebbiano la vista, che subito mi arriva un pugno allo stomaco. Mi piego in due ma non mi accascio: ci vuole ben altro, cazzo. Il problema è che la mano che impugna la pistola non ne vuole sapere di alzarsi e puntare: l'intero braccio mi penzola inerte al fianco, senza forza. Mi appoggio con la spalla al muro e vomito un misto di succhi gastrici e pizza. Commozione cerebrale, proprio quello che ci voleva.
        Cristo come sei ridotto, figliolo. Lo dovevi sapere che sei troppo vecchio per queste stronzate: a una certa età bisogna avere la decenza di ritirarsi, come ogni fottuta star del baseball. Tu invece vuoi fare l'eroe? Eccoti servito.
        Grazie per l'incoraggiamento nel momento del bisogno, pà. Mi serviva proprio. Dopo pochi altri secondi, la nube attorno a me comincia a diradarsi abbastanza da smettere di sentire la voce di mio padre e da capire chi ho di fronte. Quello che vedo non mi tranquillizza nemmeno un po'. 
       - Tu, pezzo di merda. Ora viene a fare giro con noi. Posa cannone prima che ti spiezzo il braccio – parla quello alla sinistra. Sarà alto due metri, indossa un completo scuro sotto cui è facile intravedere i suoi centocinquanta chili di muscoli d'acciaio. 
       - No scherzi: lascia a terra pistola. Non te lo chiederò ancuora – mi incalza l'uomo sulla destra che mi tiene puntata addosso una Glock. Questo è lievemente più basso di me, ma probabilmente ha un braccio più largo di una mia coscia. 
       Noto in entrambi un forte accento russo... e questo non è un bene. Capisco che non posso fare il furbo con loro, non quando ho ancora le gambe che tremano e la testa che gira come dopo una sbronza colossale. Questa è gente che non scherza, non ha mai scherzato. Ve lo dice uno che lo sa.
        Faccio per posare il revolver a terra, delicatamente, quando sento una finestra che si spalanca proprio sopra le nostre teste. Gli amici di mio figlio hanno deciso di partecipare alla festa. Il russo colossale e palestrato solleva un Uzi verso la finestra e lascia partire una raffica: la buona notizia quindi è che non c'è un accordo fra i due. La brutta notizia è che questi stronzi sono armati pesantemente. Capisco subito che non avrò un'altra occasione per darmela a gambe e che devo sfruttare questa distrazione: scarto di lato e mi riparo dietro un cestino dell'immondizia sul marciapiede. Me la cavo con un proiettile nella spalla, una ferita superficiale, spero. So che non posso restare dietro il cestino: appena il gigante punta la potenza di fuoco del suo mitra verso di me sono fottuto. Spero solo che abbiano ricevuto l'ordine di prendermi vivo... ma temo che questo lo saprò comunque troppo tardi. Devo trovare una soluzione e alla svelta.
        Nel frattempo il simpaticone al secondo piano ha preso a sparare in strada e dal rumore sembra avere un bel fucile automatico con sé. La serata si fa sempre più piacevole. Esplodo un paio di colpi mentre rotolo lontano dal secchio, cercando di raggiungere l'angolo dell'edificio per nascondermi. Sento fischiare i proiettili intorno ma stavolta resto illeso. Mi volto e vedo Renton, rannicchiato dietro un'utilitaria, che non ci sta capendo un cazzo. Appena incrocia il mio sguardo se la dà a gambe: fanculo, ho altro a cui pensare adesso. Sento i russi che si scambiano qualche amichevole effusione col tizio al piano di sopra finché il suo fucile non tace. Le possibilità che si siano fatti fuori a vicenda sono remote così comincio ad indietreggiare tenendo sempre il revolver puntato verso l'angolo dietro cui mi sono nascosto. Nel giro di due secondi spuntano i due russi, lanciati all'inseguimento. Faccio fuoco e colpisco il primo al petto mentre l'altro schizza di lato e comincia a spararmi. Mi riparo dietro un paio di auto e cerco di ragionare. Fuggire a piedi non se ne parla: se ho fortuna avranno la metà dei miei anni, sono allenati mentre io ho fatto a malapena cinquanta metri e ho già il fiatone. Mettiamoci in più che ho un buco in una spalla e di sangue ne sta uscendo in abbondanza. Un altro cazzo di trench da buttare. Mi comprimo la ferita con un fazzoletto di cotone mentre vedo che il russo che ho colpito si alza da terra e avanza verso di me. Dannato kevlar! La mia auto è esattamente alle spalle dei due stronzi, l'unica cosa che posso tentare è farmi tutto il perimetro dell'edificio e sperare che i due siano abbastanza coglioni da seguirmi senza dividersi e chiudermi a tenaglia.
        Comincio a correre a perdifiato mentre sento i due dietro che mi incalzano, mi volto ogni tanto per sparare, per rallentarli, ma è impossibile colpirli senza mirare. Il cuore mi martella nelle orecchie come i bassi di un concerto death metal mentre arranco cercando di sfruttare ogni muretto, ogni minimo riparo per coprirmi le spalle. I proiettili si conficcano nel marciapiede subito dietro di me: mirano alle gambe, adesso. Credo. Quelle gambe che sento più pesanti ad ogni passo. Quelle gambe che non posso permettere di riposare. Maledico questi ultimi cinque anni di vita sedentaria, maledico ogni fottuta ala di pollo fritta e ogni birra in lattina scolata nei pigri sabato pomeriggio. Ma non posso mollare. Volto dietro l'ennesimo angolo: ne manca ancora uno poi mi troverò dal lato giusto. Dove mi aspetta l'unica possibilità di salvezza. Mi rendo conto che non so più se ho un ultimo colpo in canna o meno. Il tempo passa, la buona abitudine di tenere il conto mentale dei colpi esplosi si perde, come i ricordi di una vita che si tenta di dimenticare. Dannato vecchio coglione. I russi sono sempre più vicini, i loro colpi più pericolosi.
        Vedo l'ultimo angolo in lontananza ma il fiato è finito. Mi riparo dietro un cassonetto e tossisco l'anima mentre sento gli stronzi che si avvicinano cauti. Mentre sputo catarro mi sento come se anche i bronchi volessero affacciarsi dalla mia bocca per annusare la notte. Tossisco ancora e la manica del trench mi si sporca di sangue. E' per la ferita, mi dico. Certo. Per la ferita alla spalla.
        Percepisco che si trovano esattamente dietro il cassonetto e che se rimango lì ancora un secondo tanto vale alzare le mani e consegnarmi. Ma non è ancora arrivato quel giorno. Sferro la spallata più potente che riesco a mettere insieme al cassonetto, che si sposta e travolge chiunque vi si trovasse dietro. Non perdo altro tempo e mi fiondo arrancando verso l'ultimo angolo.
        Quando mi volto mi rendo conto che a seguirmi è rimasto solo uno dei due, quello basso, non voglio sapere che fine abbia fatto l'altro. Mi lancio verso la mia Cadillac gialla riparandomi dietro un altro paio di auto parcheggiate mentre i colpi mi sibilano attorno. Apro la portiera ma mentre faccio per entrare il russo mi centra un polpaccio. Istintivamente mi giro e faccio fuoco dritto verso la sua faccia. Bang. L'ultimo colpo. Culo.
        Erano anni che non uccidevo un uomo. Non sono cose che ho mai fatto a cuor leggero, ma quando mi insegui sparando per tre isolati tendo a diventare estremamente suscettibile. Bastano pochi secondi per rendermi conto che la mia fortuna si esaurisce lì: la macchina non parte, ovviamente, sabotata. I russi devono avermi seguito da parecchio, dal magazzino dei cinesi o forse addirittura da quando sono entrato nell'East Side. E io sono così arrugginito che nemmeno me ne sono accorto. Hanno avuto tutto il tempo di manomettere la vettura mentre io giocavo a fare l'investigatore con gli spacciatori di Junior.
        E così ti hanno fottuto, Jamie. Sta zitto, papà. Cazzo. 
       - Ora vieni fuori, struonzo, mani bene in vista! -
E' arrivato l'altro russo, alto due metri, che mi punta contro il suo bel mitra. Possibilità di uscire vivo da uno scontro corpo a corpo: zero. Scendo lentamente dalla macchina per evitare di innervosirlo ulteriormente e dargli la scusa di farmi fuori. Gli ho appena steso il collega, vedo che freme di rabbia e che non chiede altro che un mio passo falso. Ma è un professionista e non cede: controlla se ho altre armi addosso, mi ammanetta i polsi. E io ancora respiro a fatica. Poi mi conduce verso un piccolo furgone metallizzato, parcheggiato poco vicino. Mi fa salire sul retro, mi fa voltare. Poi arriva l'ennesimo colpo alla testa, preciso, e tutto comincia a farsi scuro mentre cado in ginocchio.
        La mia coscienza sta per scivolare nel nero più nero ma cerco di resistere e di pensare. Qualcuno mi ha fottuto. Qualcuno ha parlato e ha fatto nome, posto e ora. Penso agli sguardi dei china-boys, a quelli che mi hanno riconosciuto. No, non possono aver fatto in tempo. Ero lì nemmeno un'ora fa, nessuno ha contatti così rapidi. L'unico a sapere da prima chi ero e dove sarei andato... era Shin-Lang. Perché mi ha mandato lui qua, in questa fottuta trappola. La vera domanda è “perché”?
        Indugio ancora qualche secondo poi crollo. L'ultima cosa che ricordo è il sapore di frutta marcia dei cartoni stesi a coprire il fondo del furgone e l'odore del mio sangue che scivola lento via da me.

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