sabato 27 ottobre 2012

Getaway!

East End, casale abbandonato, quartier generale della mafia russa

                  Cerco di concentrare l’attenzione sulla carta da parati giallo sporco, sulle tendine in nylon alle finestre, spalancate per illuminare la stanza. Mi focalizzo sui tavoli, sulla vodka sopra di essi. Sui mobili, sui due televisori, persino sui computer. Perché non può essere vero. Non posso trovarmi davvero al QUARTIER GENERALE. Circa 30 paia d’occhi sovietici mi fissano confusi, mentre le mani schizzano ad impugnare Makarov e AK-47. In men che non si dica mi ritrovo puntati contro 15 cannoni. Un fottuto esercito. Una cazzo di Delta Force russa pronta a ridurmi ad un colabrodo. E io che speravo mi avessero trascinato in qualche scantinato dell’East Side, qualche casupola dimenticata da dio dove farmi fuori senza problemi. E invece ero destinato a diventare un dannato trofeo per questa gente, da esibire di fronte a tutta la gang. Le mura e le porte devono essere insonorizzate, probabilmente per evitare che le urla provenienti dalla “sala della tortura” in cui ero rinchiuso poco fa disturbino gli affari gestiti nella sala principale. Altrimenti non si spiegano le facce un po’ sorprese dei mafiosi qui davanti che di certo non si aspettavano di veder uscire me, tutto insanguinato, da quella porta.
                  Il tempo che le loro non certo brillanti menti si rendano conto di quanto sia accaduto e leggo nei loro occhi la mia condanna a morte. Alzo la mano sinistra in segno di resa mentre con la destra poggio delicatamente il revolver a terra. Sono fottuto. Il cuore mi continua a martellare nelle orecchie e agisco come un automa, perché so che non c’è più niente da inventarsi con questa gente. Il mio Jolly quotidiano l’ho già giocato, cinque minuti fa in uno sgabuzzino, con una pistola puntata alla fronte. Non posso essere così fortunato.
                  E invece sì.
Un secondo prima, probabilmente, che il primo dei gorilla russi prema il grilletto per poi essere seguito a ruota da tutti gli altri… li sento. Gli spari. Provengono da fuori, dal giardino trasandato che intravedo dalle finestre. I sovietici si voltano per cercar di capire cosa succede: se ricordo bene il loro modus operandi, il perimetro è circondato da almeno il doppio delle guardie. Praticamente impenetrabile. Poi però la vedo: la buca delle lettere nella porta del casale che si apre, una granata che scivola lungo il pavimento e rotola fino a fermarsi per inerzia al centro della stanza.
                  La notano anche i russi e in pochi istanti è il panico. Tavoli vengono rovesciati, alcuni tentano di uscire da finestre o porte, altri si accalcano lungo le pareti, si buttano a terra. Io non so cosa cazzo stia succedendo ma capisco che se voglio uscirne vivo questo è il momento. Faccio dietrofront e mi sbatto la porta alle spalle, mentre una raffica di proiettili si conficca nel legno dell’uscio. Faccio appena in tempo a lanciarmi a terra e la granata esplode: tappo le orecchie e apro la bocca per compensare. L’edificio trema, la lampadina difettosa sopra di me si spegne definitivamente. Posso solo immaginare la carneficina nella camera che ho appena lasciato: c’era davvero troppa gente in troppo poco spazio. Gli autori di questo massacro devono essere gente senza scrupoli… ma in un modo o nell’altro gli devo la vita. Ma non ho tempo di pensare. Mi rialzo e, muovendomi a tastoni, mi precipito verso l’altra porta del corridoio, sperando che stavolta sia quella giusta. Ogni passo è un calvario per il buco del proiettile nel polpaccio. Il braccio della spalla colpita mi pende inerte al fianco, i punti sono saltati, le ferite riaperte. Sono disarmato, dolorante, sanguino: non è proprio il momento buono per incontrare qualcuno. Ma devo uscire fuori di qui, e in fretta. Passo la porta davanti a me mentre dietro di me e tutto intorno al casale spari ed esplosioni si susseguono. La testa mi scoppia per la febbre.
                  Scale. Scendo. Incespico due o tre volte sui gradini ma la gamba buona regge e non cado. Odore di umidità e di muffa che trasuda dalle pareti. Il cuore in gola, non riesco a respirare. In fondo alle scale apro la porta dello scantinato, stavolta con cautela. E’ un garage di grosse dimensioni, dentro ci saranno parcheggiate almeno cinque auto nere, Mercedes principalmente. C’è penombra, le luci sono spente. L’unica illuminazione proviene dal portone esterno semi aperto. Da fuori provengono raffiche di mitra: un piccolo sorcio sovietico deve essersi nascosto qui dentro pur sapendo di cacciarsi in una trappola. Ho un piccolo capogiro e mi appoggio alla parete. Cazzo, vecchio, non è il momento per accusare gli acciacchi dell’età. Devi venirne fuori intero. Devi rivedere Aileen.
                  Mi guardo intorno e vedo una cassetta degli attrezzi rovesciata. Un cacciavite bello lungo. Lo prendo e comincio ad aggirarmi circospetto tra le automobili, l’arma improvvisata impugnata e pronta a colpire, la gamba ferita che strascica dietro di me e gli occhi allucinati. Non certo un bello spettacolo. Allontanarmi di qui a piedi in queste condizioni è fuori dal mondo, devo trovare un’altra soluzione. Butto un’occhiata dentro le Mercedes: chiavi nel cruscotto. Bingo.
                  Respiro, tento di placare il battito cardiaco ma questo non vuole saperne. Che giornata di merda. Rinuncio ai miei inutili esercizi zen e avanzo finché non lo vedo, rannicchiato dietro un SLK, con un Kalashnikov in mano. Trema visibilmente, sa di essere fottuto. Non ho pietà e confermo i suoi timori: gli arrivo alle spalle e gli pianto il cacciavite nel collo con violenza. Il sangue schizza attorno, il povero stronzo gorgoglia qualcosa poi crolla. Mors tua vita mea, cazzo. Impugno il fucile, so benissimo che deve essere rimasto meno di mezzo caricatore, ma è tutto ciò che ho. Fuori la sparatoria prosegue, ma ad intervalli sempre più lunghi. Qualunque sia la fazione vincitrice sta “pulendo la zona”, occupandosi dei sopravvissuti nemici. Non ho tempo. Monto in macchina e giro la chiave nel quadro.
                  Non so chi sia stato così pazzo da assaltare il QG dei russi, so solo di non potermi fidare di nessuno. Non ho amici a questo mondo e devo cavarmela da solo. Non so cosa mi aspetta fuori dal portellone del garage, so che se non do gas adesso mi ritroverò circondato in pochi istanti da russi, ispanici, negri o dio solo sa cosa. E allora schiacciamo questo acceleratore. Il motore romba e io schizzo verso il portone semichiuso, impossibile passarci sotto. Me ne fotto e tiro dritto. Sfondo il portone e sbandando mi ritrovo nel vialetto esterno. La luce solare mi acceca per un momento poi vedo le due auto accostate a sbarrare la strada per la fuga, mentre tre o quattro tizi con i loro mitra cominciano a sparare. Abbasso la testa per evitare i proiettili e prego che la lamiera di questa auto sia sufficientemente solida. Gli stronzi fanno fuoco e il parabrezza mi esplode addosso in mille schegge. Ne sto perdendo di sangue: la mia vista comincia ad annebbiarsi e non riesco a capire chi è che mi sta sparando, se sono russi o meno. Ma se c’è una cosa che ho imparato da parecchio tempo è che se qualcuno ti spara addosso non può essere un amico.
                  Punto alle macchine che bloccano la via e accelero. Non è il primo posto di blocco che forzo e la polizia, di solito, li fa meglio. C’è un punto preciso tra la coda di una macchina e la punta dell’altra in cui è possibile incunearsi: basta avere una macchina resistente e la giusta quantità di cavalli sotto il culo. D’altronde, non ho niente da perdere.
                  Accelero.

domenica 21 ottobre 2012

Stop & Go

          Ci sono giorni in cui devi fermarti. Non perché tu sia stanco né perché ti sei mosso troppo. Non vuol dire nemmeno che tu debba restare immobile, anzi. Devi fermare la testa, staccare il cervello per quella giornata, tornare ad essere un Uomo.
          Ci sono giorni in cui devi scollarti dalla tastiera e tornare NEL mondo.
Sono giorni in cui l'unica cosa che abbia senso fare è infilare un casco, allacciarti il giubbotto di pelle e inforcare la tua moto. Non è importante la meta, non è importante la velocità. Non è nemmeno importante la compagnia. Perché in fondo, in sella, sei solo. Solo. Come quando si nasce o si muore.
           Ci sono giorni in cui hai bisogno di perderti nelle Terre Selvagge, fra un tornante e l'altro, fra una collina dolce e un altopiano verdeggiante, costeggiando ruscelli e attraversando ponti di pietra. Leggero e nel tuo vestito migliore. Assaporare il calore del sole e l'umidità del sottobosco, dare gas sul rettilineo e subito dopo scalare marcia bruscamente, in staccata. Urlare a squarciagola i classici dell'Hard Rock quando il motore ruggisce coprendo ogni suono, anche quelli nella tua testa. Restare muti in contemplazione osservando il paesaggio dalla vetta.

            Tutto questo per dirvi che oggi il vostro autore di noir preferito "riposa". Ricarica le pile, fa il pieno di benza e sorride sotto il sole di questo ottobre stupendo. Nero su Nero torna la prossima settimana, e non ci saranno cazzi per nessuno, garantisco.

Lamps

domenica 14 ottobre 2012

Behind the enemy lines

da "qualche parte" nell'East End

                Ok, è buio e sono legato, questo è quanto. La testa mi gira come se all’interno un gruppo di piccoli teppisti si stesse divertendo sugli autoscontri. Doppio trauma cranico nel giro di mezzora, non esattamente il mio genere di “serata tipo”. Devo recuperare la lucidità e devo farlo in fretta. Sono in una piccola stanza, un sottoscala probabilmente, davanti a me distinguo una porta dal cui stipite filtra una luce debole.



                  Cerca di ricordare, vecchio, dove sei? Immagini sfocate si affacciano alla mia mente: mi scaricano dal furgone, mi legano, mi urlano contro qualcosa, mi riempiono di calci. Mi passo la lingua fra i denti e ne sento distintamente uno che si stacca. Lo sputo per terra e impreco sottovoce. I ragazzi si sono sfogati per la morte del loro compare, ma è chiaro che hanno ricevuto l’ordine di conservarmi vivo e integro, più o meno. Testimone è il fatto che le mie ferite da arma da fuoco sono state medicate, i proiettili nella spalla e nel polpaccio estratti. Credo che i boss vogliano togliersi la soddisfazione di persona. Quei due bastardi.
                  Passano le ore con una monotonia disarmante. Sento vaghe voci provenire da fuori, ma non capisco. D’altronde è russo, c’è poco da capire. Percepisco lo scorrere lento del tempo e il gonfiarsi dei lividi su braccia e gambe. Una fitta al costato. La faccia gonfia. Aileen non me lo perdonerà mai. In un raro momento di lucidità capisco realmente in che razza di casino mi sono ficcato. I russi. I fottuti russi. Un’intera carriera da contrabbandiere ad evitare di finire sotto le loro mani, un tira e molla che dura da trentanni. Poi “l’accordo”: anche se sarebbe meglio dire “il ricatto”. E adesso ancora una volta a rischiare la pelle per colpa loro. Merda.
                  Ragiona, vecchio, chi sa che sei qui? Nessuno, coglione. Devi esserti proprio rimbambito per l’età, cazzo. Tutte quelle menate sul tema “io lavoro da solo” e guarda com’è andata a finire. Tu non sei Bruce Willis, pezzo d’idiota. E questo non è Die Hard. Qui si muore davvero.
                  Già, si muore davvero. E morire per mano di questi stronzi sovietici è anche peggio. Cazzo: è la cosa più stupida che abbia mai fatto. Tentare un rapimento senza aver studiato la zona, non avere nessuno a guardarmi le spalle, nessun fottuto piano B. E non aver avvisato nessuno. Non si lavora così, un professionista non commetterebbe mai questi errori.
                  Ok, hai perso lucidità, può capitare. E’ coinvolto tuo figlio stavolta, la faccenda è delicata.
Mio figlio a cui non rivolgo la parola da dieci anni.
Tuo figlio a cui, nonostante tutto, vuoi bene.
Mio figlio che è l’unico che può davvero perdonarmi, aiutarmi a vincere i sensi di colpa.
Ma tu hai Aileen.
Sì, ma non conta: questa volta lei non c’entra. Non c’è mai entrata.
                  Smettila di commiserarti, vecchio. E ragiona. CHI sa che sei qui? I cinesi. Shin-Lang. Il figlio di puttana che mi ha cacciato in questo immenso casino. Il primo che pagherà una volta che sarò uscito di qui. Dopo tutto quello che ho fatto per quei musi gialli… fanculo.
                  Non passa molto poi, prima di vedere la porta aprirsi. Un paio di russi armati farfugliano qualcosa, poi fanno spazio ad un terzo. E ad un quarto. Questi due nuovi simpaticoni impartiscono ordini alle guardie, che subito sento allontanarsi lungo il corridoio. Per un attimo la luce artificiale mi acceca e vedo le loro sagome stagliarsi scure nell’arcata della porta, come implacabili giudici contro cui è vano lottare. Poi gli occhi si abituano e li vedo entrare ed avvicinarsi alla sedia dove sono legato. Non sono giudici, sono solo due cazzo di magnaccia slavi. Sempre loro, da trentanni, probabilmente gli unici boss ancora in carica dai miei tempi nelle gerarchie della criminalità locale. E ci sarà un fottuto motivo.
                  I fratelli Krushev in persona, quale onore! Krushev come il politico illuso di aprire la Russia all’Occidente. All’America. Ma qualsiasi persona di buon senso sa che i russi non saranno mai dei nostri: ci useranno, entreranno nelle nostre città e si fingeranno nostri amici, ma solo finché gli farà comodo. Poi troveranno il modo di fotterci. Non è razzismo o pregiudizio. Semplicemente noi faremmo lo stesso con loro: 40 anni di Guerra Fredda non si dimenticano facilmente. I fratelli Krushev, dicevo. Vladimir e Nicolaj. Più russi di così, si muore.
-     Nick, Vlad! Quanto tempo! Cazzo, devo dire che gli anni non sono stati poi così generosi con voi. Ehi, Nick, eri tu quello goloso di Hot Dog, vero? Devi avere un po’ esagerato negli ultimi tempi a giudicare dal grasso in eccesso. Dite la verità: vi sono mancato? -
Ci provo, a fare lo spavaldo. Ci provo, a non aver paura. La voce regge, non trema: ma Dio solo sa che dentro me la sto facendo sotto. Questi stronzi non si limitano ad uccidere: hanno letto tutti i manuali top-secret di CIA e KGB sulla tortura. E sanno metterli in pratica. Lo so perché l’ho visto fin troppe volte.
                  I due mi guardano, vedo i lineamenti duri e i volti segnati, la luce del corridoio che si riflette nel loro sguardo spietato. E’ tutto in bianco e nero, come in un noir degli anni cinquanta. Non credo che il mio approccio da simpatico cazzone abbia sortito effetto.  Non credo che ne verrò fuori vivo.
-     Ol’ James, vecchio stronzo. Hai avuto la tua possibilità di sparire, di far perdere le tue tracce. Un aereo per Parigi, un atollo nel Pacifico, Cuba, una cazzo di capanna sulla spiaggia in Brasile. Ma no, tu devi continuare ad osare, tu devi dimostrare che sei il più furbo, che puoi fare tutto ciò che vuoi. Bè, adesso hai finito di giocare –
La calata russa è appena percepibile, sono troppi anni che vive negli Stati Uniti per far notare il suo accento. E’ Nick che parla, mentre tira fuori il suo coltello e comincia a muovermelo davanti, usando la lama per riflettermi in faccia la luce artificiale. Non oso pensare cosa voglia farmi con quello.
-       Suvvia, Nick, perché le cose devono prendere questa piega? Sì, è vero, vi avevo detto che sarei sparito. E vi ho pagato profumatamente per lasciarmelo fare. Ma sono qui solo di passaggio, non ho alcuna intenzione di rimettermi in affari o di darvi fast… -
-      Shhhh – mi zittisce come un bambino mentre poggia la lama sulla mia guancia e comincia lentamente ad incidere. Le prime gocce di sangue scivolano lungo il collo.
-      E il meeting coi cinesi non significa niente, vero? O forse hai ricominciato a collaborare con loro? Chi traffica coi musi gialli, lo sai, è nostro nemico… –
Cazzo. Sanno tutto, l’hanno sempre saputo. Non mi resta che stare al loro gioco.
-       Ok, ok. Avete vinto. Trattiamo –
-    Trattare? Tu non hai più niente che ci interessa a parte la tua stessa vita. Hai perso ogni potere –
-    Suvvia, non prendetemi per un idiota totale – dovrebbero invece – vi sembra possibile che uno come me si cacci in un casino del genere senza nemmeno essere scortato? I miei colleghi “amici di Mao” avranno già circondato l’edificio a quest’ora. Lasciatemi andare e forse si limiteranno a far saltare in aria questo posto. Mentre voi due potreste aver salva la vita… già che ci penso, forse solo uno di voi due –
Leggo un lampo di dubbio nei loro occhi e prego che siano così idioti da stare al mio bluff.
-      Vuoi dire che hai fatto da esca per fargli trovare questo posto? Nessuno sarebbe così pazzo –
-       Sai com’è, quando uno non ha più niente da perdere… -
-      Ora basta stronzate – game over. Vladimir tira fuori la pistola e poggia la canna aderente alla mia fronte, mentre Nicolaj allontana il coltello. Dio, quanto la vedo brutta.
-       Ehi, cazzo, non mi offrite nemmeno l’ultima sigaretta? -
-       Va’ al diavolo, Ol’James –
-       Gli porterò i vostri saluti, sono sicuro che vi sta aspettando -
Vlad tira il cane e preme il grilletto. Peccato che la mia testa non sia più lì. In un lampo i muscoli del collo scattano, un secondo prima che il colpo esploda. La mia mascella si serra attorno alle dita del russo mentre l’esplosione accanto all’orecchio mi fracassa il timpano e mi stordisce. Mordo con tutte le mie forze, poi mollo. Con la testa che mi gira e la gamba ferita che chiede pietà faccio perno sui piedi legati e ruotando fracasso la sedia di legno addosso a Nick, che stava ancora aspettando di vedere le mie cervella spiattellate sul muro. Gli anni passano un po’ per tutti e anche i due figli di troia qui davanti devono essere invecchiati. I polsi li ho sciolti un quarto d’ora fa, così mi lancio a raccogliere il coltello di Nick mentre Vlad caccia un urlo e fa cadere la pistola mentre si guarda la mano sanguinante. Ringraziando il cielo sono più in forma di quel grassone di Nick così arrivo prima alla lama e gli tiro un fendente. Il bastardo urla e si ritrae e io faccio appena in tempo a segare i legacci alle caviglie che subito me lo ritrovo addosso. Il ciccione è forte e pesante e in men che non si dica mi ritrovo disarmato e a terra con le sue mani al collo. Provo a mollargli due pugni alla bocca dello stomaco, poi passo ai reni. Ma Nick non molla la presa e io comincio a soffocare. Con la coda degli occhi vedo Vlad che ha recuperato la pistola con la mano sinistra e la punta incerto verso il groviglio di carne che si sta pestando a pochi metri. Fortunatamente è così stravolto che non chiama aiuto subito, lasciandomi una minima speranza di uscirne intero.
                  Un momento prima di svenire riesco a divincolare una gamba e a sferrare un calcio nelle palle a Nick: un calcio debole, ma abbastanza preciso da fargli allentare le mani. Rincaro la dose con una testata sul suo setto nasale che esplode in uno spruzzo di sangue.
-    Spara, cazzo, SPARA! – grida il grasso figlio di puttana al fratello.
Vlad nel panico prende la mira e fa fuoco una, due volte.
                  Complice la mano poco allenata e qualche santo che devo indubbiamente avere in paradiso, i proiettili si conficcano nel grasso di Nick anziché nella mia testa. Non perdo l’occasione: recupero e scaglio il coltello dritto in fronte a Vlad. Le infinite notti trascorse a gareggiare ubriaco con freccette e coltelli nei pub irlandesi dell’East Side saranno pur servite a qualcosa. Il coltello si ficca direttamente in mezzo agli occhi del russo che crolla a terra di colpo. Mi giro e tiro un calcio in faccia a Nick che sta urlando come un matto a terra: tace di botto, non so se morto.
                  Sono senza fiato, spalla e polpaccio mi bruciano da morire e deve essermi salita una febbre spaventosa. Ma non ho tempo di fermarmi, gli scagnozzi di questi due saranno qui a momenti, non possono non aver sentito le urla da porco scannato di Nicolaj. Mi chino a raccogliere la pistola ancora nella mano di Vlad: è una rivoltella, Smith & Wesson, canna corta. Non la mia preferita ma quantomeno è un revolver. Ancora tre colpi per te… e non perdere il conto stavolta, vecchio.
                  Esco zoppicando dalla porta: un corridoio, due porte agli estremi, una lampadina sbilenca ad illuminare il tutto. Ce la puoi fare, vecchio, sei uscito vivo da situazioni peggiori. Adesso devi solo decidere: destra o sinistra. Destra o sinistra?
                  Destra. Mi muovo più velocemente possibile e spalanco la porta con la pistola spianata. Ma quello che vedo…. mi fa perdere la speranza una volta per tutte.


sabato 6 ottobre 2012

Il Demone dentro

Fantastico Mondo dei Mille Colori

         Sono in sella al mio destriero, lanciato al galoppo attraverso la campagna del Fantastico Mondo. Risplende al sole del primo mattino la mia lucente armatura di acciaio bianco. Sul petto, all'altezza del cuore, brillano dei lapislazzuli incastonati nella cotta di maglia, lucenti stelle della notte più scura. Il vento mi scompiglia i lunghi capelli corvini e io godo della fresca brezza mattutina, del tiepido calore dei raggi solari e della fiamma della Fede che mi arde nel cuore.
         Sono in viaggio per sgominare il Male, una volta per tutte. Il Male più oscuro e crudele, e proprio per questo il più difficile da individuare. I suoi infidi servitori sono ovunque, camuffati da pigri contadini o da ricchi e viscidi mercanti, da onesti fabbri o da sensuali cortigiane. Il Male divora, il Male corrompe i cuori e amplia le sue schiere ogni giorno che passa. Più di tutto, il Male consuma e fa consumare. Costringe ad aver bisogno di cose di cui non abbiamo bisogno. Consuma la vita e consuma la morte, corrode i valori, mette in vendita le lacrime, tratta e commercia in ricordi, si nutre di sorrisi di bambini e grida di madri. Il Male è nel denaro, nelle catene dei mutui bancari e nelle speculazioni dell'alta finanza. Il Male è nella politica, negli intrighi di corte, nel servilismo dei ministri e dei senatori. Il Male persegue uno e un unico scopo: l'asservimento totale dell'uomo alle sue regole di mercato. La schiavitù definitiva.
         Solo l'Ordine dei Bianchi Cavalieri si oppone al dilagare infestante del Male. Da cinquecento anni i miei confratelli si scontrano contro le orde oscure e le ricacciano nelle nascoste profondità da cui provengono. Da cinquecento anni il Nero Ventre del Male vomita sulla terra le sue abominevoli armate, facendo strage di innocenti.
         Oggi è il giorno. Il giorno del mio Sacrificio. Arriva un momento in cui ogni Bianco Cavaliere capisce che è giunto il giorno di immolare la propria vita per la Causa: esso parte per un lungo e periglioso viaggio da cui il ritorno è solo una remota possibilità. Ma il mio cuore è sereno e la mia mente è lucida. La lama nel fodero brama sangue del Nemico e i miei muscoli sono saldi e pronti a scattare per affrontare ogni sfida.
         Proseguo il mio galoppo senza senso e senza meta e il paesaggio intorno a me muta. Tutti sanno che il Male non ha fortezza, non ha regno. Il Male alberga ovunque e soprattutto nel cuore umano. Cercarlo in un luogo fisico è follia, il Male si manifesta solo quando desidera, tutto ciò che posso fare è attendere la sua comparsa. E così attraverso i Gialli Campi e resto abbagliato dagli enormi girasoli torreggianti, costeggio il Mare dalle Acque Purpuree, mi inoltro nella Foresta delle Nere Spine. Tempro la mia spada sulle gelide vette dei Ghiacciai Violacei e ridiscendo verso il Fiume della bollente Lava Arancio. Disseto la mia sete alla Verde Fonte e tingo il mio mantello nel Lago del Rosso Eterno. Viaggio per giorni che diventano mesi che diventano anni. Non so per quanto il Male abbia atteso il momento propizio, instillando il dubbio nel mio cuore. Il folle desiderio di abbandonare la Missione, la falsa consapevolezza di star perseguendo una Strada senza via d'uscita, una Caccia senza preda né predatore. Viaggio così a lungo da dimenticare persino il mio nome e da smarrire ogni coscienza di me al di fuori della mia Sacra Ricerca.
         Quando finalmente incontro le sue avanguardie il mio corpo è fiacco e il mio spirito debole. L'Inferno mi vomita addosso mostruosi Troll dalle Quattro Braccia e decine di minuscoli Spiriti Assassini. Impugno Asuril, la fedele Lancia del Vigore, e faccio strage di nemici. Mi si avventano contro Elfi Corrotti e formose Succubi... ma io non ho pietà di loro e bagno col loro sangue la mia lama grondante. Vengo assalito da creature di ogni foggia: talune cercano di blandirmi, altre di colpirmi alle spalle. Altre ancora tentano brutalmente di schiacciarmi come un insetto. Forte è la mia Fede e non risparmio alcun nemico perchè brilla in me la Luce della Verità. La mia bianca armatura viene macchiata dal sangue policromatico dei mostri mentre rifulgono sul mio cuore le perle color cobalto. Ma più ne elimino e più sembrano non finire mai, orrido simulacro della lotta di Ercole contro l'Idra. Il mio corpo viene ferito innumerevoli volte, la mia anima fustigata. Asuril viene spezzata e così tutte le mie armi benedette e consacrate.
         Sono circondato dal Nemico, senza alcuna via di fuga, e sono sul punto di cedere e raccomandare la mia anima alle Alte Stelle. Sono certo che morirò proprio lì, in quel punto, e che niente potrà cambiare questo fatto. Quando ecco spalancarsi la coltre di nubi che offuscava il cielo ed apparire Lui, l'Angelo, il messaggero di Speranza, l'araldo della Libertà e della Giustizia. Il suo volto non ha volto, i biondi capelli incorniciano un viso senza età e senza espressione. Egli non è composto di materia eppure sprigiona forza intorno a sé come un Guerriero di Luce. Lo guardo e lo adoro. Lo guardo e ogni fibra del mio essere lo ama. Lui mi consegna la Spada Alfa, artefatto mistico di ignota provenienza, capace di creare e di distruggere, sorgente di un potere quasi divino. La mia mano si poggia appena sull'elsa e un'improvvisa onda d'urto si diffonde attorno a me spazzando a terra le orde immonde che mi circondavano. Nuova vitalità e rinnovato coraggio si diffondono nelle mie vene.
         Il Male trema. Capisce che non mi fermerò finché non l'avrò spazzato via dal Fantastico Mondo per l'eternità. Così mi invia contro l'ultimo avversario. Il Demone dalle Cento Code, l'avatar fisico del Male stesso, gigante fatto di fiamme e scaglie, di vapore e metallo.
Questi mi fissa col suo sguardo di fuoco e io ricambio con la fierezza di un vero Bianco Cavaliere. Accanto a me l'Angelo svetta e brillando tiene il braccio teso e l'indice puntato verso l'oscura creatura che mi si staglia di fronte. Il Demone ruggisce fuori il suo disprezzo e la sua ira.
Io brandisco la Spada Alfa e carico.

         Mi sveglio di soprassalto e mi tiro su a sedere. Il letto è fradicio del mio sudore, io stesso sono zuppo. Ma sto bene. Ora sto bene. Dalla poltrona accanto mi fissa il mio fidato amico, Buddy, obeso e geniale come pochi stronzi al mondo. Mi fissa col suo sorriso sardonico di sempre, mentre fuma la sua solita canna d'erba.
         - Cazzo, amico. Stavolta devi esserti fatto un viaggio di cristo -

sabato 29 settembre 2012

Cobalto


East Side, seminterrato sulla Columbia Street 

        - Harry James Scott. Harry James Scott JUNIOR. Ecco tutto quello che mi ha lasciato mio padre. Un NOME. Il suo fottutissimo nome. E cosa dovrei farmene del suo nome, della sua fama da TRAFFICANTE di merda? -
Parlo da solo e fisso lo specchio del cesso davanti a me. Mi CARICO.
        - Ma adesso non sono più “Junior” per NESSUNO. Adesso, fanculo, sono “quello del COBALTO”. La miglior merda che puoi trovare per strada al giorno d'oggi. Pulita, comoda, pochi effetti collaterali, SBALLO assicurato. La richiesta aumenta ogni giorno, e ogni giorno abilmente danzo sul gioco della domanda e dell'offerta affamando la CITTÀ... senza mai lasciarla veramente a secco. La dipendenza. Grande invenzione - 
        Mi sono appena iniettato sotto pelle una DOSE. Una dose speciale, “corretta”, potrei dire. Buddy l'ha preparata appositamente per me, è diversa dalla roba che mandiamo in giro. Al momento sono l'unico che ne fa uso in tutto il fottuto globo. Sintetizzarla è un CASINO di cui ho sempre capito poco: strumentazione da migliaia di dollari, lavoro a bassissime temperature, processi di raffinazione complicatissimi, gran spreco di materie prime. Il risultato però è ECCEZIONALE. Gli effetti possono sembrare gli stessi del Cobalto ma portati all'ennesima potenza: basti pensare che questa dose speciale te la inietti direttamente nel CUORE o giù di lì. Il Cobalto, a confronto, non è altro che cocaina particolarmente pura.
         Mi sciacquo la faccia. Pochi secondi e arriva la botta iniziale, degna della migliore ERO. Più viscerale del più intenso ORGASMO della tua vita. Mi aggrappo ai bordi del lavandino mentre sento tutti i miei muscoli che fremono, come percorsi da una SCOSSA. Le gambe si tendono allo spasmo, i nervi delle braccia salgono in rilievo, mi si gonfiano le vene del collo. Sto da DIO.
        Ho del lavoro da fare, stanotte. Un incontro “diplomatico”, hanno detto. I tre boss delle maggiori famiglie dell'East Side manderanno i loro ambasciatori del cazzo a contrattare una SOLUZIONE. Perché non posso continuare così. Non posso prendermi tutto il quartiere. Ci sono regole, territori, mazzette da elargire.
         FANCULO. Io non tratto con i servi. Io non tratto con nessuno. Non mi spezzo e non mi piego: io ottengo ciò che VOGLIO e basta.
         Mi allaccio le All Star azzurre, mi infilo una canottiera rovinata e mi butto addosso il mio giubbotto di pelle. Fa FREDDO, dicono. Il TG ha annunciato un brusco calo delle temperature fin da stanotte. Sarà, ma io sto così fatto che non sento NIENTE, se non un piacevole tepore che promana dalla mia stessa pelle. Sono su di giri, anche se “su di giri” è riduttivo. “Matto come un CAVALLO” rende meglio l'idea. Scendo per i marciapiedi silenziosi di Columbia Street e respiro forte l'aria della notte. Le anfetamine sintetizzate nel Cobalto fanno il loro effetto: è come se il mondo girasse a RALLENTATORE. Le automobili che mi scorrono affianco, i rari passanti che incrocio e che mi osservano tesi e imbarazzati dal mio sguardo allucinato. Sì. E' come se tu fossi abituato a vedere la vita in bianco e nero e improvvisamente inventassero il COLORE.
         Continuo a camminare verso il luogo dell'appuntamento, non è lontano. Il Preacher's Bar è un bar h24, abbastanza distante dai traffici di ogni famiglia, ai confini del quartiere. Si dice che il proprietario sia un REVERENDO dell'Alabama, che si è spretato perchè ha perso la fede nell'uomo. Non fatico a dargli ragione. Imbocco uno stretto vicolo e godo nel sentire che la DROGA rende tutti i miei sensi più attenti, le percezioni sfiorano il paranormale. Sento il SUONO della prima goccia di pioggia che si posa a terra. L'ODORE del toast che sta cucinando la grassa signora al secondo piano dell'edificio davanti a me. Potrei individuare l'esatta TRAIETTORIA di un proiettile basandomi solo sull'inclinazione della pistola. Potrei farlo in tempo reale.
         Quando arrivo davanti al Preacher's li trovo lì, tutti incappottati, che scalpitano per vedermi: il russo, il cinese, l'ispanico. Già, anche russi e cinesi che si ODIANO da generazioni sono fianco a fianco per trattare con me. Dovrei sentirmi onorato ma non me ne fotte NIENTE. Sono stati onesti, non hanno portato scorte o gorilla vari, anche se probabilmente sotto gli impermeabili tengono un arsenale. D'altronde tre contro uno, per giunta scheletrico e tossico, non hanno nulla da temere, no? Leggo la TENSIONE sui loro volti e capisco che ci tengono davvero al buon esito di questa chiacchierata, sperano di risolvere tutto pacificamente. Sperano che nessuno si faccia male. Poveri STRONZI.
         Cominciano a parlare ma mi frantumano le palle dopo tre secondi netti. Li sento blaterare di “rispetto”, di “convivenza civile”, di “parole d'onore”. Rispondo con uno sguardo inebetito e vuoto: ok, ammetto che la mia capacità attentiva sotto l'effetto di sostanze non è il massimo. E poi mi ero incastrato a guardare un GATTO randagio col pelo striato. Avrà attraversato la strada almeno una dozzina di volte. Che cazzo starà facendo? Caccia? Pattuglia il suo territorio?
        - ... e perciò... reciproca convenienza economica... i profitti si moltiplicherebbero... -
Dio, sentiteli. Sembra di stare a parlare con dei MAGNATE dell'alta finanza. Ma noi siamo criminali, cazzo. Qualcuno deve esserselo dimenticato. Per fortuna noto la mia SCARPA e le sue stringhe sciolte. Mi chino per allacciarle. Alzo l'orlo del pantalone e sento il metallo legato alla caviglia e nascosto nel calzino. Il BATTITO del cuore aumenta.
          - Vedete, cari i miei stramaledetti commercialisti, non ho intenzione di farvi perdere tempo – esordisco – Immagino voi siate venuti qui animati dalle migliori intenzioni, per ottenere un accordo, un compromesso. Ma io non cederò, non indietreggerò. Questa cazzo di città sarà MIA, presto o tardi, lo vedrete. Pertanto non fate perdere tempo nemmeno a me e andate a fare il culo. Io non sono venuto qui per ascoltarvi ciarlare. Sono venuto qui per il SANGUE -
Emetto l'ultima sillaba e in un decimo di secondo estraggo il serramanico, lo apro e spicco un SALTO. Mi avvinghio all'enorme russo e gli pianto il coltello nel collo. Sono una pantera. No, sono una fottuta TIGRE. Sono un cazzo di lupo mannaro e la lama è il mio ARTIGLIO, le mie zanne. I due stronzi sopravvissuti non ci stanno capendo un cazzo mentre la giugulare del siberiano spruzza e imbratta di ROSSO me e loro. Tirano fuori i loro mitra e sparano alla cieca. Troppo LENTI. Mi faccio scudo col corpo del russo poi piroetto e sferro un calcio potente al ginocchio del cinese. Sento distintamente il “CRACK” della rotula. Questo si piega urlando e io gli conficco la lama da sotto in su nel mento. L'ispanico si sta cacando sotto e lascia partire un paio di raffiche. Lento lento. Io salto sulla schiena del cinese accasciato e la uso come un trampolino per avventarmi dall'alto sull'ultimo rimasto. Sono un NINJA, un guerriero ombra. Sono un eroe di un film d'azione, di un videogioco. Sono Enzo e sono LARA CROFT. Atterro coi piedi sul petto dell'ispanico sbattendolo a terra, poi calo il coltello quattro, cinque volte su di lui, finché non mi si spezza la lama. Vatti a fidare della roba comprata alle bancarelle.
         Mi alzo da terra e osservo lo SPETTACOLO: si sarà svolto tutto in nemmeno dieci secondi. Attorno a me si è creato un piccolo capannello di gente, gli aficionados del bar, depressi attaccati alla bottiglia fino alle prime luci dell'alba.
        - Cazzo avete da guardare?! -
Spariscono come TOPI. Io mi apro il giubbotto e estraggo dal fodero l'altro coltello. Quello VERO, da caccia, con lama seghettata.
         Vi chiederete: perchè il coltello? SCONTATO. Le pistole sono troppo comode, rendono la morte, l'omicidio, una faccenda semplice, quasi “distante”. Le pistole sono per i codardi. Se non ti sporchi di sangue non puoi dire di aver ucciso veramente qualcuno. E poi, in quest'era di giubbotti antiproiettile e kevlar, non puoi mai esser sicuro di aver steso qualcuno finché non vedi zampillare il suo sangue sul MARCIAPIEDE.
         Faccio appena in tempo a ripararmi dietro una macchina che arrivano i primi proiettili. Ecco la cavalleria, gli amici nascosti dei tre agenti finanziari che mi hanno mandato contro. Probabilmente pronti a farmi fuori nel caso avessi rifiutato la loro “PROPOSTA”. E mi sembra di essere stato chiaro sul rifiuto.
         Saranno mezza dozzina, forse più, armati con fucili automatici probabilmente. Nessun problema. BACIO la lama del coltello e ricomincio la mia danza.

         Quando ho finito mi avranno colpito almeno due o tre volte ma io non sento niente. Una strage. E io non sento niente. Non sento rimorso, non sento DOLORE, non sento di perdere sangue. Sono IMMORTALE. Il Cobalto, nella sua versione “custom”, è anche questo.
         E' per questo che mi rispettano. Per questo tutti vogliono lavorare con me. Sono l'unico leader così PAZZO da continuare a sporcarsi le mani. La vicenda di questa notte risuonerà per mesi nei racconti delle baby-gang, nelle bettole degli ispanici, fra gli ubriaconi slavi e nelle tane dei fottuti mangiariso. Avranno TERRORE, sapranno che non si scherza con me, non si scende a patti con me. Lo scopo è raggiunto, ci penserà Buddy poi, a ricucirmi. Tiro fuori dai jeans una fiala AZZURRA e me la premo nel petto, sotto il pettorale sinistro, fra le costole. Aah. Meglio di qualsiasi adrenalina.
         Mentre mi incammino verso il mio seminterrato sono SERENO, ho la mente sgombra. So che di tutti quelli nel bar, nemmeno uno oserà sollevare il telefono e chiamare la polizia. Quello che succede nell'East Side rimane nell'East Side. Cosa la paghiamo a fare, altrimenti, la POLIZIA? Lo sanno tutti dove abito, ma nessuno mi è mai venuto a cercare. QUESTO è il terrore.
         Metto un piede davanti all'altro e inspiro a pieni polmoni l'odore del SANGUE. Quel sangue che mi macchia il giubbotto, la canottiera, le stesse scarpe. Quel sangue ha un odore così forte che copre qualsiasi altro profumo. Persino il SUO profumo, stampato indelebile nei miei ricordi.
         Poi lo sento. Non dovrei, ho tanto di quel sangue addosso che non è possibile. Ma lo sento. Il profumo dei capelli di mia madre. Mia madre morta. Mia madre ammazzata da quello stronzo di cui porto il nome. Mi guardo attorno e mi scopro ad aver PAURA, per la prima volta in tutta la serata. Le ombre dei lampioni e dei cassonetti prendono vita, si muovono, e il profumo diventa sempre più forte. Sto diventando pazzo. Forse lo sono sempre stato. E' la droga. Sul muro accanto a me le ombre vanno a disegnare una figura sinistra, mostruosa: vedo CORNA, vedo ali e code. Non ci capisco più un cazzo e mi allontano dal muro quanto possibile, senza però riuscire a staccarne lo sguardo. Mi sta partendo la testa, lo so. Sono solo allucinazioni, nient'altro che allucinazioni. Poi ancora quel profumo, INTENSO. 
        - Tutta la tua SOFFERENZA. Tutto il tuo SANGUE. E' MIO -
E' la mia voce che sento. Eppure non è la mia. Mi tocco la gola mentre la figura sul muro mi fissa con i suoi occhi di FUOCO.
         Quello che vedo nel suo sguardo è TROPPO. Qualcosa scatta nel mio cervello, l'io cosciente non regge e va a rifugiarsi in un angolo remoto. Comincio a correre come un indemoniato, senza curarmi di niente, mentre sbatto addosso a cassonetti e specchietti di automobili. Faccio i GRADINI a tre a tre, entro in casa e busso in camera di Bud. Dalla sua faccia non devo essere messo granché.
         Poi vado in SHOCK.

sabato 22 settembre 2012

Una lunga notte (parte II)


East Side, Market Square

        Guardati lì, a terra, a mangiare la polvere. Debole, piccolo, inutile. Così coglione da startene appostato per dieci minuti e non esserti controllato le spalle nemmeno una volta. E adesso? Pensi di rimanertene lì ancora per molto o pensi di alzarti? Forza, Jamie, dimostra che hai ancora le palle, lì sotto. Sii uomo.
        Sì, papà, certo. Annaspo sul marciapiede per qualche secondo prima di riuscire ad issarmi su: sembra che le ginocchia stiano per cedere da un momento all'altro ma resto in piedi. Intanto tutto continua a vorticare freneticamente intorno a me, mentre tento di capire che cazzo è successo. Ok, classico calcio di pistola in testa, perfetto. Adesso devo solo aspettare che il mondo smetta di girare e mi permetta di puntare la Colt contro lo stronzo che mi ha ridotto così. Certo. Che ci vorrà mai. Tento di voltarmi verso la direzione da cui mi sembra arrivata l'aggressione ma faccio appena in tempo a distinguere una sagoma fra le lucine e le ombre che ancora mi annebbiano la vista, che subito mi arriva un pugno allo stomaco. Mi piego in due ma non mi accascio: ci vuole ben altro, cazzo. Il problema è che la mano che impugna la pistola non ne vuole sapere di alzarsi e puntare: l'intero braccio mi penzola inerte al fianco, senza forza. Mi appoggio con la spalla al muro e vomito un misto di succhi gastrici e pizza. Commozione cerebrale, proprio quello che ci voleva.
        Cristo come sei ridotto, figliolo. Lo dovevi sapere che sei troppo vecchio per queste stronzate: a una certa età bisogna avere la decenza di ritirarsi, come ogni fottuta star del baseball. Tu invece vuoi fare l'eroe? Eccoti servito.
        Grazie per l'incoraggiamento nel momento del bisogno, pà. Mi serviva proprio. Dopo pochi altri secondi, la nube attorno a me comincia a diradarsi abbastanza da smettere di sentire la voce di mio padre e da capire chi ho di fronte. Quello che vedo non mi tranquillizza nemmeno un po'. 
       - Tu, pezzo di merda. Ora viene a fare giro con noi. Posa cannone prima che ti spiezzo il braccio – parla quello alla sinistra. Sarà alto due metri, indossa un completo scuro sotto cui è facile intravedere i suoi centocinquanta chili di muscoli d'acciaio. 
       - No scherzi: lascia a terra pistola. Non te lo chiederò ancuora – mi incalza l'uomo sulla destra che mi tiene puntata addosso una Glock. Questo è lievemente più basso di me, ma probabilmente ha un braccio più largo di una mia coscia. 
       Noto in entrambi un forte accento russo... e questo non è un bene. Capisco che non posso fare il furbo con loro, non quando ho ancora le gambe che tremano e la testa che gira come dopo una sbronza colossale. Questa è gente che non scherza, non ha mai scherzato. Ve lo dice uno che lo sa.
        Faccio per posare il revolver a terra, delicatamente, quando sento una finestra che si spalanca proprio sopra le nostre teste. Gli amici di mio figlio hanno deciso di partecipare alla festa. Il russo colossale e palestrato solleva un Uzi verso la finestra e lascia partire una raffica: la buona notizia quindi è che non c'è un accordo fra i due. La brutta notizia è che questi stronzi sono armati pesantemente. Capisco subito che non avrò un'altra occasione per darmela a gambe e che devo sfruttare questa distrazione: scarto di lato e mi riparo dietro un cestino dell'immondizia sul marciapiede. Me la cavo con un proiettile nella spalla, una ferita superficiale, spero. So che non posso restare dietro il cestino: appena il gigante punta la potenza di fuoco del suo mitra verso di me sono fottuto. Spero solo che abbiano ricevuto l'ordine di prendermi vivo... ma temo che questo lo saprò comunque troppo tardi. Devo trovare una soluzione e alla svelta.
        Nel frattempo il simpaticone al secondo piano ha preso a sparare in strada e dal rumore sembra avere un bel fucile automatico con sé. La serata si fa sempre più piacevole. Esplodo un paio di colpi mentre rotolo lontano dal secchio, cercando di raggiungere l'angolo dell'edificio per nascondermi. Sento fischiare i proiettili intorno ma stavolta resto illeso. Mi volto e vedo Renton, rannicchiato dietro un'utilitaria, che non ci sta capendo un cazzo. Appena incrocia il mio sguardo se la dà a gambe: fanculo, ho altro a cui pensare adesso. Sento i russi che si scambiano qualche amichevole effusione col tizio al piano di sopra finché il suo fucile non tace. Le possibilità che si siano fatti fuori a vicenda sono remote così comincio ad indietreggiare tenendo sempre il revolver puntato verso l'angolo dietro cui mi sono nascosto. Nel giro di due secondi spuntano i due russi, lanciati all'inseguimento. Faccio fuoco e colpisco il primo al petto mentre l'altro schizza di lato e comincia a spararmi. Mi riparo dietro un paio di auto e cerco di ragionare. Fuggire a piedi non se ne parla: se ho fortuna avranno la metà dei miei anni, sono allenati mentre io ho fatto a malapena cinquanta metri e ho già il fiatone. Mettiamoci in più che ho un buco in una spalla e di sangue ne sta uscendo in abbondanza. Un altro cazzo di trench da buttare. Mi comprimo la ferita con un fazzoletto di cotone mentre vedo che il russo che ho colpito si alza da terra e avanza verso di me. Dannato kevlar! La mia auto è esattamente alle spalle dei due stronzi, l'unica cosa che posso tentare è farmi tutto il perimetro dell'edificio e sperare che i due siano abbastanza coglioni da seguirmi senza dividersi e chiudermi a tenaglia.
        Comincio a correre a perdifiato mentre sento i due dietro che mi incalzano, mi volto ogni tanto per sparare, per rallentarli, ma è impossibile colpirli senza mirare. Il cuore mi martella nelle orecchie come i bassi di un concerto death metal mentre arranco cercando di sfruttare ogni muretto, ogni minimo riparo per coprirmi le spalle. I proiettili si conficcano nel marciapiede subito dietro di me: mirano alle gambe, adesso. Credo. Quelle gambe che sento più pesanti ad ogni passo. Quelle gambe che non posso permettere di riposare. Maledico questi ultimi cinque anni di vita sedentaria, maledico ogni fottuta ala di pollo fritta e ogni birra in lattina scolata nei pigri sabato pomeriggio. Ma non posso mollare. Volto dietro l'ennesimo angolo: ne manca ancora uno poi mi troverò dal lato giusto. Dove mi aspetta l'unica possibilità di salvezza. Mi rendo conto che non so più se ho un ultimo colpo in canna o meno. Il tempo passa, la buona abitudine di tenere il conto mentale dei colpi esplosi si perde, come i ricordi di una vita che si tenta di dimenticare. Dannato vecchio coglione. I russi sono sempre più vicini, i loro colpi più pericolosi.
        Vedo l'ultimo angolo in lontananza ma il fiato è finito. Mi riparo dietro un cassonetto e tossisco l'anima mentre sento gli stronzi che si avvicinano cauti. Mentre sputo catarro mi sento come se anche i bronchi volessero affacciarsi dalla mia bocca per annusare la notte. Tossisco ancora e la manica del trench mi si sporca di sangue. E' per la ferita, mi dico. Certo. Per la ferita alla spalla.
        Percepisco che si trovano esattamente dietro il cassonetto e che se rimango lì ancora un secondo tanto vale alzare le mani e consegnarmi. Ma non è ancora arrivato quel giorno. Sferro la spallata più potente che riesco a mettere insieme al cassonetto, che si sposta e travolge chiunque vi si trovasse dietro. Non perdo altro tempo e mi fiondo arrancando verso l'ultimo angolo.
        Quando mi volto mi rendo conto che a seguirmi è rimasto solo uno dei due, quello basso, non voglio sapere che fine abbia fatto l'altro. Mi lancio verso la mia Cadillac gialla riparandomi dietro un altro paio di auto parcheggiate mentre i colpi mi sibilano attorno. Apro la portiera ma mentre faccio per entrare il russo mi centra un polpaccio. Istintivamente mi giro e faccio fuoco dritto verso la sua faccia. Bang. L'ultimo colpo. Culo.
        Erano anni che non uccidevo un uomo. Non sono cose che ho mai fatto a cuor leggero, ma quando mi insegui sparando per tre isolati tendo a diventare estremamente suscettibile. Bastano pochi secondi per rendermi conto che la mia fortuna si esaurisce lì: la macchina non parte, ovviamente, sabotata. I russi devono avermi seguito da parecchio, dal magazzino dei cinesi o forse addirittura da quando sono entrato nell'East Side. E io sono così arrugginito che nemmeno me ne sono accorto. Hanno avuto tutto il tempo di manomettere la vettura mentre io giocavo a fare l'investigatore con gli spacciatori di Junior.
        E così ti hanno fottuto, Jamie. Sta zitto, papà. Cazzo. 
       - Ora vieni fuori, struonzo, mani bene in vista! -
E' arrivato l'altro russo, alto due metri, che mi punta contro il suo bel mitra. Possibilità di uscire vivo da uno scontro corpo a corpo: zero. Scendo lentamente dalla macchina per evitare di innervosirlo ulteriormente e dargli la scusa di farmi fuori. Gli ho appena steso il collega, vedo che freme di rabbia e che non chiede altro che un mio passo falso. Ma è un professionista e non cede: controlla se ho altre armi addosso, mi ammanetta i polsi. E io ancora respiro a fatica. Poi mi conduce verso un piccolo furgone metallizzato, parcheggiato poco vicino. Mi fa salire sul retro, mi fa voltare. Poi arriva l'ennesimo colpo alla testa, preciso, e tutto comincia a farsi scuro mentre cado in ginocchio.
        La mia coscienza sta per scivolare nel nero più nero ma cerco di resistere e di pensare. Qualcuno mi ha fottuto. Qualcuno ha parlato e ha fatto nome, posto e ora. Penso agli sguardi dei china-boys, a quelli che mi hanno riconosciuto. No, non possono aver fatto in tempo. Ero lì nemmeno un'ora fa, nessuno ha contatti così rapidi. L'unico a sapere da prima chi ero e dove sarei andato... era Shin-Lang. Perché mi ha mandato lui qua, in questa fottuta trappola. La vera domanda è “perché”?
        Indugio ancora qualche secondo poi crollo. L'ultima cosa che ricordo è il sapore di frutta marcia dei cartoni stesi a coprire il fondo del furgone e l'odore del mio sangue che scivola lento via da me.

sabato 15 settembre 2012

Una lunga notte (parte I)

East Side, magazzino abbandonato sulla tredicesima 

        La notte è fredda come non mai mentre cammino nelle vie scarsamente illuminate del quartiere. La mente corre ad Aileen: so che stavolta non capirà, non me la farà passare liscia. Ogni respiro fa arrivare al cuore fitte di vetro congelato, il vento sferza i muri e le saracinesche dei negozi chiusi lungo la tredicesima. Ho lasciato la macchina a due isolati dal magazzino per garantirmi un po' di discrezione e avere il tempo di riflettere. L'ultima volta che ho incontrato Shin-Lang era un adolescente brufoloso e con un pessimo carattere; adesso dicono sia uno dei pezzi più grossi della mafia cinese sulla costa orientale. Mi stupisce la rapidità con cui cambiano i vertici delle organizzazioni criminali negli ultimi anni: ai miei tempi non era così. Nascevi e morivi e le cose attorno a te sembrava quasi non mutassero, avevi certezze, pilastri a cui aggrapparti quando tutto sembrava crollare. Non posso fare a meno di pensare che questo continuo far “saltare teste” tipico di quest'ultima generazione renda il mondo ancora più folle, violento e senza senso di quanto sia mai stato. Ammesso che tutto ciò un senso l'abbia mai avuto. 
        A guardarlo da fuori appare come un edificio fatiscente, un magazzino abbandonato, chiuso da anni. Le pareti con l'intonaco crepato, vari strati di graffiti sui muri, senza soluzione di continuità. Lo stesso portone arrugginito da l'impressione di poter essere sfondato con un paio di pedate ben assestate. E in effetti sarebbe anche così, se non fosse che ad attendere subito dietro ci sono almeno mezza dozzina di mitra pronti a crivellare l'incauto visitatore. Non che siano mai capitati simili spiacevoli episodi: i cinesi sono sempre stati discreti e puliti nel loro lavoro, e nessuno è mai stato così pazzo da andare a “citofonare” al magazzino sulla tredicesima senza essere stato invitato. 
       Quando mi avvicino al portone prontamente si apre uno spioncino da cui cominciano a fissarmi sospettosi due occhi a mandorla. 
       - Sono solo un vecchio amico -
Fortunatamente il mio arrivo è già stato annunciato perchè in pochi secondi il portone viene leggermente aperto e vengo fatto penetrare all'interno del più importante covo della mafia cinese di tutta la Città. Sono sorpreso perchè non vengo nemmeno perquisito, un atto di cortesia d'altri tempi. Devi ancora godere di un certo rispetto almeno fra questa gente, vecchio. L'interno dell'edificio è stato recentemente ristrutturato, niente di particolarmente appariscente ma quantomeno non da l'impressione di dover crollare da un momento all'altro come la facciata esterna. In ogni caso niente dragoni cinesi dipinti o lampade di carta rossa: la tradizione è morta da tempo. Vedo una sala comune: intorno ai tavoli è pieno di china-boys che scarrellano semiautomatiche, tirano botte di coca e contano dollari imbrattati. Odore di casa. Tento di muovermi con naturalezza, senza destare troppo l'attenzione dei presenti, ma mi rendo conto che in molti si accorgono della mia presenza anomala. Qualcuno mi riconosce pure, temo. Cazzo. Tempo domani mattina tutto l'East Side saprà che sono stato qui. Ignoro tutti e mi dirigo a passo svelto verso il piano superiore, dove in una sorta di ufficio mi attende Shin-Lang, intento a fumare crack e a guardare fuori dalla finestra. 
       - ... e così entro un paio di giorni tutti sapranno che Ol' James è tornato e si è messo a lavorare coi cinesi. Un bel colpo, eh? - esordisco. 
Lui si volta e mi guarda con lo sguardo stralunato del fumato, ma so benissimo che sotto quella patina il ragazzo è fin troppo lucido. Si aggiusta i lunghi capelli neri sciolti e si gratta distrattamente la barba scura, che lo fa sembrare molto più vecchio di quanto sia in realtà. Necessità estetiche di un boss troppo giovane. 
       - Fino a prova contraria sei stato tu a bussare alla mia porta, “Ol' James” - sottolinea sarcastico – io sto solo facendo un favore al mio povero vecchio zio - 
       - Suvvia, Shin, lo sappiamo entrambi che hai smesso da tempo di prendere ordini da Tai-Chi. Se sono qui è solo perchè la mia presenza ti fa comodo, per una questione politica, d'immagine. Oltretutto ho anche intenzione di occuparmi gratuitamente di una faccenda scomoda. Un vero affare per te - 
Poggia le mani sulla scrivania e mi fissa con durezza. 
       - Ti stai forse tirando indietro, Scott? - 
Mi guarda e leggo la minaccia nei suoi occhi. E' abituato a trattare così con la gente, sottoposti e rivali. Ma io sono troppo vecchio e stronzo, troppo navigato, per farmi intimidire da un ragazzino: sostengo lo sguardo e lo provoco. 
       - Secondo te? - 
Il cinese ci pensa su per un attimo, poi cambia registro e torna conciliante.
        - No, certo che no. Tu non sei come la feccia là fuori. Perdona l'irruenza ma... ultimamente ho troppi cazzi per la testa - 
La tensione scema e io mi accendo una sigaretta prima di riprendere a parlare. 
       - Nessun problema, boss, ma adesso veniamo a noi. Sono stato al tuo gioco e sono venuto fin qui, pur sapendo che la voce si spargerà, che anche i fottuti russi lo sapranno, e che per me saranno cazzi nel giro di pochi giorni. Cosa hai per me? - 
       - Louis Renton, è uno dei “distributori” di tuo figlio. I piccoli spacciatori si riforniscono da lui, poi si dividono il territorio e ricoprono l'East Side di roba. E' l'uomo più vicino alla “fonte” che siamo riusciti a trovare e non è stato facile: cambiano punto d'incontro ogni settimana e dobbiamo ancora capire come riescono a passarsi le informazioni... tutto questo per dirti che potresti avere solo questa possibilità, per parecchio tempo - 
       - Non avrò bisogno di una seconda - 
       - Bene. Tra l'una e un quarto e le due, vicino alle cassette della posta, proprio davanti al Mercato generale - 
Mancano tre quarti d'ora, è meglio che mi sbrighi anche perchè non credo che Shin-Lang abbia molto altro da dirmi. Gli tendo la mano per congedarmi ma lui mi ferma. 
       - Aspetta: immagino tu abbia bisogno di un'arma e di qualche uomo - Sorrido mostrando il mio solito ghigno mangiamerda. 
       - Lavoro meglio da solo, boss, grazie. Quanto al resto... ho questa – scosto leggermente il trench e lascio intravedere la fondina legata sul costato. 
       - Un revolver? Cazzo, non ne vedevo uno da 15 anni. Anche il più coglione gira almeno con una semiautomatica al giorno d'oggi. Lascia che ti procuri qualcosa di serio - 
Ah. I soliti giovani d'oggi: praticoni, abituati alla pappa pronta. Abituati a svuotare caricatori interi e a mettere a segno due o tre colpi. Con un revolver hai sei fottuti proiettili e li devi far fruttare, ne dipende la tua sorte. Non puoi permetterti di calare in concentrazione. Inoltre un revolver con una buona manutenzione NON si inceppa. Mai. E' uno dei pochi compagni che non ti abbandona sul campo. E poi... 
      - Questo non è “un” revolver, ragazzo. E' una Colt Python del '79, canna da sei pollici, calibro .357 Magnum. Fora la lamiera di qualsiasi automobile e apre buchi di 10 cm di diametro nel petto di un uomo. Sottovalutarla è un errore che la gente non ripete due volte - 
E così dicendo esco dalla stanza, mentre lo sento bisbigliare alle mie spalle qualcosa come “vecchio pazzo, si farà ammazzare”. Incasso il complimento e me ne fotto, mentre esco dal magazzino. Questo vecchio pazzo ha del lavoro da fare. 

       Arrivo al piazzale con dieci minuti d'anticipo così ho appena il tempo di studiare i dintorni. Fortunatamente conosco bene la zona: prima che il Mercato venisse rimesso in uso lo utilizzavamo come scalo per i nostri traffici di alcol e armi. E' un bene che l'appuntamento non sia all'interno dell'edificio perchè penetrarvi sarebbe stato pressoché impossibile, senza qualcuno a pararmi il culo. Meno positivo è il fatto che sicuramente avranno appostato un cecchino al secondo piano o sul tetto: le cassette della posta sono un bersaglio perfetto e sono anche fin troppo vicine. Una volta finite le trattative devo trovare un modo di attirarlo rasente al muro, al riparo. Ma poi, dopo averlo preso, che fare? Usarlo come ostaggio sarebbe una stronzata: con ogni probabilità i cecchini hanno l'ordine di far fuori lui e chiunque rompa le palle, in caso di problemi. 
       Nascosto da un vicolo laterale ad un centinaio di metri dalle cassette, comincio ad osservare il Mercato cercando di stanare la posizione di eventuali cazzoni appostati dietro le finestre. Quando si avvicina l'ora X vedo una saracinesca al secondo piano che si solleva impercettibilmente, proprio sopra le cassette della posta: perfetto. Mentre le prime figure cominciano ad assieparsi vicino al luogo dell'appuntamento io inizio a muovermi, facendo un largo giro del piazzale e sfruttando ombre e punti morti del cecchino, per arrivare in una zona da dove osservare bene la situazione. Dopo cinque minuti di manovre riesco a piazzarmi dietro l'angolo dello stesso Mercato, ad una ventina di metri dallo spaccio, e prego con tutte le mie forze di non essermi fatto notare lungo il tragitto. Se così fosse, sono fottuto. Adesso non mi resta che aspettare che lo smercio finisca e sperare di aver indovinato il lato giusto dell'edificio. Se infatti Renton una volta finito si dirige dall'altro lato le possibilità di raggiungerlo sono minime. Ma dall'altro lato c'è la  quarantasettesima, una strada trafficata, l'accesso più visibile al piazzale. In tanti anni di contrabbando non ho mai usato quel lato per “sparire” a lavoro terminato, perciò mi fido del mio istinto. 
       Passano altri cinque minuti, mentre io regolarmente sbircio da dietro l'angolo. Non dovrebbero avermi notato perchè lo scambio avviene regolarmente: Renton è quello con lo zuccotto di lana blu, ha due grosse borse da palestra da cui estrae quelle che sembrano scatole da scarpe e ne consegna una ad ognuno. Gli spacciatori sono giovani, quasi tutti teenager: gli passano dei mazzetti di dollari che lui mette via senza neanche contare. Quegli stronzetti devono aver talmente paura da non rischiare di fare i furbi. 
       Quando lo scambio termina, i ragazzi si allontanano in direzioni diverse: chi attraverso la piazza, chi per la quarantasettesima. Nessuno viene verso di me. Azzardo un'ultima occhiata e vedo Renton che si muove a passo deciso verso la mia posizione (Bingo!), pur rimanendo ben distante dal muro, sotto il tiro del cecchino. Sembra magrolino, sotto il giaccone invernale. Buona cosa. Ma se gli sparo su una gamba adesso, il nostro amico lassù lo finisce prima che io possa anche solo avvicinarmi. Niente da fare, devo sfruttare l'unico punto morto disponibile: l'esile albero sul marciapiede, a pochi passi dall'angolo dietro cui sono nascosto. Chiamarlo punto morto è prendersi per il culo, la copertura è ridicola... ma sempre meglio di niente. Confido nel fatto che mio figlio non paghi sicari professionisti armati di mirino laser per un semplice smistamento di droga. Attendo il momento giusto e perfeziono il piano. Un primo colpo lontano, in direzione della cassetta della posta, per creare confusione. Il secondo dritto al ginocchio di Renton. Poi trascinare il cazzone al riparo dal fuoco: ho la macchina a pochi metri nella via laterale, se ho culo riesco a caricarlo e a filarmela prima di ritrovarmi gli scagnozzi di Junior incollati alle chiappe. Mh. Bel piano di merda. 
       Precisione e rapidità di esecuzione. Ecco quello che ci vuole. Estraggo la Python e prendo la mira. Renton supera l'albero e entra nella zona d'ombra. Tiro il cane e mi preparo a far fuoco. 
       Poi, dal nulla, mi arriva un colpo potente alla nuca. 
E il mondo si rovescia.